Cioè, veramente non è proprio quello che volevo raccontarti qui, mi è scappata la divagazione sulle sedie.
Mi è venuto in mente che ripresi anni fa a fumare per ridare un senso ad un posacenere sul quale da tanto tempo non si posava più la cenere. Mi faceva tenerezza.
E in effetti volevo parlarti di quanto mi piacciano i posti che un tempo erano affollati e poi li abbiamo abbandonati, tipo una spiaggia in inverno dove anni prima ho fatto il pic nic in una sera d’estate, o questa piattaforma dove non ci sono più le parole che tanto vorrei, o una casella di posta che non riceve più la posta, o la vecchia tovaglia verde da gioco di mio padre che non vede più le carte e le fiches da anni; il vespasiano di Brignole dove nessuno va più a pisciare, la scalinata di piazza piccapietra dove facevo le gare di sputi neri di liquirizia con la Ludo, l’ingresso della Stazione Principe dove non c’è più quella ragazza che aspetta l’arrivo di un treno con un bimbo in braccio che stringe tra le dita taccolente un orsetto di gomma, o quel vecchio vestito dove non entreranno mai più le mie forme; il bar di Sturla dove il jukebox non suona più in loop Wurhering Heights; la Madonna del Monte, dove non si vedono più le madonne, la neve degli anni in cui nevicava e la bottiglia vuota di Veuve Clicquot.
Di cose così, volevo parlarti.
Della mia nostalgite per i posti e gli oggetti insignificanti e abbandonati, appesi tra la vita e la morte: non vivono più ma non muoiono mai.
Ma non è nemmeno questo esattamente che volevo dirti stasera.
È sempre un brivido stare in bilico sulle gambe posteriori di una sedia e non sapere se l'equilibrio reggerà.
La prima volta che l'ho fatto senza tenermi al bordo del tavolo della sala, la sedia è scivolata indietro facendomi precipitare in terra, mi sono schiacciata un dito e la mamma mi ha sculacciata. Giorni dopo ho perso l’unghia.
Ricordo ancora quel dolore che dal dito mi ha spaccato il cuore prima ancora del cervello, ammesso che ci fosse.
Li deve essere nato il mio amore/odio per le sedie, anche se poi è stata la_sedia_del_diavolo a risvegliarli.
Hai ragione tu, le sedie sono stronze, ti fanno credere di darti sostegno, ma alla prima vera prova di equilibrio ti ritrovi col culo all’aria, il cuore attraversato dal dolore, una sculacciata senza senso e un’unghia nera che poi perderai.
Sto diventando ansiosa e paranoica esattamente come la mia amata sorella.
Con l’unica sottilissima differenza che io reagisco a questo disagio in maniera diametralmente opposta alla sua eterna ricerca spasmodica di mettersi in sicurezza, tanto da avere mille app sul telefono per tenere sotto stretto controllo qualsiasi parametro e abitudine della sua vita.
A me invece scatta solo la voglia irrefrenabile di drogarmi forte.
Io non ti conoscevo ma a furia di cercarti ti ho trovata.
È strano, gli amici cari del mio ragazzo, da quando è diventato grande, li ho sempre immaginati come fossero creature venute dal nulla, come se il destino li avesse piazzati li al suo fianco perché da loro lui prendesse qualcosa e perché lui restituisse loro qualcosa.
Li immagino improvvisamente intrecciati per caso alle sue radici, senza saper nulla delle loro, affinché crescano insieme nel breve tempo di un pezzettino di vita, il tempo del divertimento, delle cazzate, delle passioni e delle zingarate.
È un mistero per me il loro tempo insieme, lui me ne parla poco e io rispetto questo spazio che deve essere solo suo; l’unica cosa che conosco bene è la serenità che vedo nel suo volto quando rientra a casa, e tanto mi basta.
Uno di loro è il tuo primo figlio.
Il Vostro primo figlio.
Ti ho scovata su un social perché dovevo sapere chi sei, perché ho saputo dell’orribile tragedia che gli ha portato via suo padre, squarciando in una sera il suo sacrosanto tempo del divertimento delle cazzate e della spensieratezza, e quando ti ho vista e ti ho letta, improvvisamente il tuo ragazzo non era più la creatura venuta dal nulla.
Ho trovato la concretezza di un progetto d’amore infinito che lo ha forgiato, che lo ha nutrito, che lo ha cresciuto e che, bello come una divinità del mare, lo ha servito a mio figlio (che prima di allora un’onda non l’aveva mai cavalcata) su una tavola da surf.
Le mie preghiere non valgono un cazzo, io sono una che il Dio a volte lo bestemmia.
Ma stasera supplico questo mio povero Dio di aiutarti a non opporre resistenza al dolore incatenato dentro ma a lasciarlo andare dove deve. Come un’onda che si ingrossa e fa paura e tu il surf che riporterà i vostri figli verso una nuova riva.
Non posso fare altro che mandarti un virtuale abbraccio nel profondo del mio cuore, cara sconosciuta Angela.
Solo questo, dalla mamma di un amico del tuo ragazzo, venuta dal nulla.
L’altroieri invece, mentre ascoltavamo musica, abbiamo programmato il nostro matrimonio.
Si terrà il 19 gennaio 2026 alle ore 18:00.
La data ha un grande significato.
È la data in cui 10 anni prima due amanti sono stati beccati come due coglioni non so per bocca di chi (bocca che comunque ringrazio con tutto il mio cuore) e per un po’ siamo stati messi alla gogna.
Io di sicuro sono quella che ci ha fatto la più grande figura di merda: quella della troia infame, ma ormai non mi ricordo più come ci si sente ad essere una troia infame.
È acqua passata, una vergogna senza perdono alla quale mi sono piano piano rassegnata, fino a renderla col tempo un misero autoindulgente “e vabbè, a l’è anæta coscì”.
Per me sarà il secondo matrimonio e sì, lo voglio diverso. Lo voglio figo.
Mi piace come me lo hai proposto. Io, te, marcobella e la gaiotti come testimoni, qualcuno che officia a palazzo imperiale, nessun parente, nessun figlio che manco approverebbe, nessun regalo e io che finalmente vado dal parrucchiere e mi faccio mettere un nastro tra i capelli.
I fotografi siamo noi, che ci facciamo improbabili selfie coi cellulari.
La macchina parcheggiata a pagamento in piazza piccapietra e giù a piedi fino a piazza campetto, in un lunedì sera invernale qualunque, quei giorni alla Jep Gambardella in cui non si manifestano neanche gli spacciatori di popper.
Il viaggio di nozze negli Stati Uniti e Messico. Due sole tappe: Albuquerque e Sinaloa.
Comunque, dicevo: l’altroieri abbiamo programmato ‘sto cazzo di matrimonio, ma ciò che non mi sono sentita di dirti, nonostante avessi sufficienti molecole in corpo che producono l’ormone della sincerità, è:
chissà se sarò ancora viva.
Perché io sono fatta così, penso alla morte costantemente e quotidianamente.
Non che la desideri, anzi.
Ma la sua minaccia mi tiene dolce compagnia quando mi vengono gli attacchi di paura.
È come se pensando alla mia morte, allontanassi la paranoia di dover vivere la morte altrui o la paura di diventare un peso insopportabile, problematico e odioso per chi sarà costretto a prendersi cura di me.
Ma tu questo come cazzo fai a capirlo, mio bel cacciatore di benessere dei miei coglioni che ti cachi sotto anche al solo pensiero di venire qui a leggere un paio di stronzate.
Amore, morte, gelosia, corna, malattia, paura, e cose così.
Come potevo dirti che mentre programmavamo allegramente la data del nostro matrimonio, nella mia testa questi pensieri facevano orribili festini?
Mentre parlavamo per distrarmi dai festini, ho messo la data sul calendario del cellulare con la sveglia.
Tu hai detto: ma io me lo ricordo, non ho bisogno di segnarmelo.
Anche io me lo ricordo, per chi mi hai preso, stupido coglione che non sei altro.
Però me lo sono segnato lo stesso.
Solo per il piacere di sentire una notifica sonora alle 18:00 del 19 gennaio 2026, quando tu sarai di terzo turno e tra una nave e l’altra ti sparerai il 39 millesimo livello di homescapes, e io sul treno, di ritorno dal lavoro, dirò fra me e me:
Toh, oggi avremmo dovuto sposarci, ma di lunedì i parrucchieri sono chiusi, ho i capelli di merda e non posso venire.
Oggi 2 maggio 2024 mi sono presa una giornata ferie.
Ed è andata molto bene fin dal risveglio.
Infatti, non dico che ero depressa, ero solo triste.
Non dico che ero psicopatica, ero solo maleducata e aggressiva.
Non dico che ero in piena crisi isterica, ero solo arrabbiata.
Non dico che ero affetta da ossessioni, ero solo preoccupata e pensierosa.
Non dico che avevo attacchi di panico o di ansia, ero solo spaventata.
Non dico che soffrivo di un disturbo dell’attenzione, dico che non me ne fregava un cazzo di tutto.
Non dico che ero abulica, ero solo in ferie e non ho fatto altro che frignare.
È andata molto bene perché non avevo nessuna patologia psichica, ero solo in piena turbolenza dell’anima, o per meglio dire, ero pregna di emozioni di merda.
Arrivano le notizie della zia Franca sulla chat della famiglia e io non commento mai.
Sono una merda.
Ma come si fa a commentare le notizie di una persona che sta in un ospizio, che non le lasciano tenere nulla, manco una matita, che non la lasciano andare in bagno, che si caga e si piscia addosso, che piange perché vuole tornare a casa sua e non vuole stare sporca nel letto?
Come si fa a commentare il dolore della sua unica figlia che non ha altra scelta che tenerla lì, che ha rinunciato al bello dei suoi 50 anni per seguire sua madre e per vederla ora appassire disperatamente in quel posto come una pianta marcia che un tempo aveva dato frutti meravigliosi a lei e ai figli di lei?
Ma cosa cazzo volete che commenti, DioMadonna.
L’unica cosa che potrei commentare è che piuttosto che ridurmi così preferirei morire domenica prossima.
Domenica, non prima, perché voglio vedere ancora due puntate di The Gentleman con Edo mentre mangiamo qualche proteina unta e perché domani voglio andare a cena dalla mamma, e perché venerdì prossimo voglio andare dal parrucchiere e poi con Germa a Santo Stefano al Mare a fare la fuga con la Mini usata nuova, che per comprarla mi sono indebitata fino al buco del culo, però ho fatto l’assicurazione ‘morte’ in caso dovessi morire così mio figlio non se lo deve menare con le rate (però Edo ricordati che devi 3k allo zio Carlo, dedotti i 50 euri al mese pagati fino alla mia morte).
Ecco, domenica prossima potrebbe anche essere ok.
Non prima.
Coraggio zia Franca, tieni duro, che l’anima di un Gozzi non è mai stato un concentrato di leggerezza, ma una risata non se l’è mai negata.
Ti auguro di tornare prestissimo a sorridere insieme ai tuoi fratelli, col culo pulito e una matita in mano.
Papà, avrei voglia di fare una cirulla con te. Ma ne avrei voglia solo perché sono 22 anni che non ti vedo e non gioco con te.
Se tu ora fossi ancora qui con noi, probabilmente continuerei a non sopportarti per gli stessi motivi per cui non sopporto me stessa.
Perché io e te siamo identici.
Papà, se tu fossi ancora qui con noi, non mi verrebbe da raccontarti come sto stasera.
Perché sarei la stupida che sono stata per tutti i trent’anni in cui ti ho avuto al mio fianco, durante i quali sapevo che mi avresti capita e mi avresti detto la cosa giusta, ma non ti ho mai permesso di avere la soddisfazione di dirmela.
Papà, ora che sei morto vorrei dirti che stasera mi sento di merda.
E chissà che cose belle tireresti fuori per farmi sentire meglio, mentre mi spacchi un culo così a cirulla e mi sgridi perché son lenta a contare fino a 15 e non ricordo le carte che sono uscite.
Cresciuta con la convinzione che l’amore condannato fosse il massimo della realizzazione romantica a cui potessi aspirare.
Ecco perché oggi mi ritrovo a dover chiedere un finanziamento e l’anticipo della liquidazione per cambiare la mia vecchia Smart scassata con un’auto usata di almeno 13/15 anni.
(Sì, questa può suonare un po’ pesantuccia, lo so, ma se mai dovessi passare da queste parti sappi che non è una lamentela ma una felice presa di coscienza del mio caposaldo ;)
Ansia, forte dolore che attraversa come una lama il polmone sinistro dalla tetta alla scapola, tosse cronica, (siga spenta prima di entrare in ospedale), accettazione, sala d’attesa, macchinetta del caffè rotta, Facebook, notifica di un ricordo “Accadde oggi”: un post della Simo che mi dice “IO CI SONO”, parla del Giapponese che non le basta mai (il ristorante) e annuncia che stasera, 23/01/2009, ci va.
In effetti, 15 anni dopo, LEI C’È, e non va al ristorante giapponese a calarsi un sushi, ma in Via del Giappone a fare i raggi con me.
Stavo pensando a quei 1000 giri di parole per essere criptica come piace a me, dire il mio tutto che capisco solo io e gli altri dicono figo, ma chissà che cazzo voleva dire?
Però stasera no, non ce la faccio proprio perché la verità è che non sono mai stata il poeta maledetto scapigliato che avrei voluto essere quando avevo 18 anni e stavo studiando per la maturità, esame in cui, tra l’altro, mi hanno valutata con un misero quaranta sessantesimi di merda perché nel tema sul Leopardi ho citato Careless Whisper di George Michael, buonanima.
Sono stufa di sentirmi dire che sono esaurita e frustrata, che non sono mai abbastanza: abbastanza contenta o abbastanza empatica o abbastanza equilibrata o abbastanza qualsiasi cazzo di cosa volete che io sia.
Pompini.
Ecco cosa ho imparato ieri da una grandissima saggia, prima di quella “rilassante” passeggiata notturna da pegli a pra in cui non ho certo corso il rischio di essere aggredita per violenza sessuale, ma quello di fare una figura di merda se mi avessero aggredita per derubarmi i 15 euro che avevo nel portafogli.
Pompini che bisognerebbe fare quotidianamente e generosamente.
Pompini ammerda a tutti quelli che ti stanno intorno, uomini, donne, bambini, figli, psicopatici, vecchi, amici, colleghi, amanti, parenti, capi, clienti, amori, cani, gatti e persino ai mortacci tuoi, per farli stare tutti bene, salvare la tua anima maledetta e farti valutare abbastanza qualcosa, anche più di 40/60.
Sani pompini fatti lbene dove tu al massimo patisci quel sopportabilissimo colpo di glottide che precede il rumoroso conato di vomito, con gli occhi lacrimanti che ti schizzano fuori dalle orbite.
Quei sani pompini fatti bene per essere ricordata da tutti come il Creatore del loro benessere, senza troppo rompere i coglioni altrui.
Non ho più sangue nelle vene però ora mi sparo il 24imo episodio di Lady Oscar e mi spompino il mio tenero esaurimento ingiustificato, che è venerdì sera e pure lui pretende la sua pausa abbastanza godereccia.
Vorrei essere ispiratissima in questa prima mattina del nuovo anno (che non so perché ha, fin dai tempi della scuola elementare, quell’orrendo sapore misto di malinconia e merda tipico della domenica sera) per poter scrivere qualcosa in merito ai buoni propositi che in genere si fanno il primo gennaio.
Ne avrei davvero tantissimi da sottopormi, se solo avessi la voglia di impegnarmi, ma alla fine sono un’abitudinaria e lascio tutto il mio disordine uguale a quello degli anni precedenti.
Non tocco e non sposto niente, perché oltre ad essere un’abitudinaria, sono anche un’inguaribile superstitious, e mi dico: se anche quest’anno si è chiuso senza grandi traumi (sebbene non si possa manco dire che si sia chiuso in un trionfo, visti gli ultimi giorni) significa che può funzionare così. Squadra vincente non si cambia, quindi perché fare entrare in campo dei buoni propositi del cazzo che sicuramente potrebbero migliorare la mia persona ma magari mi portano sfiga?
Mi tengo comodamente la mia squadretta composta da tutti quegli elementi che avrebbero dovuto essere l’oggetto dei miei buoni propositi, tipo tutte le mie debolezze, i miei scazzi, le mie paranoie, le mie frustrazioni e le mie 15/20 Rothmans rosse al giorno.
Auguro un anno di tanti sorrisi a tutti quanti, a chiunque voglia ancora sopportare e supportare la mia squadra, a chi la sostiene con affetto nonostante tutto, a chi la trova anche un po’ attraente, nonostante tutto, a chi un tempo la trovò attraente ma ormai ha scoperto essere noiosa e faticosa, a chi la vorrebbe perdente e a chi deciderà di non seguirla più.
Sono le ore 9.25 ed entro breve spero di incontrare il mio primo sonno del 2024, dato che sono a letto già da ore ma ancora non si è palesato.
Credo di essere stata profilata sul web come “utente a cui piantarlo facilmente in culo” perché ogni volta che entro in qualche social mi trovo davanti una catena infinita di profili fake che mi propongono ogni tipo di truffa (annunci intervallati al massimo dai post di mia madre, che truffe non sono ma il pericolo di esserne inghiottita è altrettanto spaventoso).
Non ho ancora capito se gli occhi del cyberspazio abbiano riconosciuto quanto io sia una vecchia coerentemente rincoglionita cronica dal fatto che su ig ho iniziato a seguire con imbarazzante assiduità Chiara Ferragni, o dal fatto che su blogspot scrivo minchiate da depressa, o che su Twitter penso ancora di essere su Twitter anziché su X o perché su ogni sito in cui vado, per non fare la schizzinosa diffidente, accetto e acconsento a qualsiasi cuchi e privacy, o infine perché due mesi fa su un palese annuncio fake di fb ho comprato e pagato euro 49,99 con carta di credito un mobiletto portatrucchi e porta bigiotteria di dubbio gusto che ovviamente non mi è mai arrivato, ma sono in costante contatto con una tipa di Hong Kong che si fa chiamare Your Service Support Angel, la quale giura ogni volta sul riso alla cantonese che il cazzo di mobiletto sta arrivando e mi ringrazia for my patience.
Ma prego figurati, cara la mia Support Angel, prenderlo in culo dalla Cina può a suo modo essere anche un piacere, che budda ci possa perdonare tutti quanti, maledetta te, me e maledetto il giorno in cui ho deciso di comprare un mobiletto di merda che, tra l’altro, se un giorno davvero dovesse arrivarmi, mi costringerebbe a prendere tristemente coscienza di tre fattori sostanziali:
1) non saprei dove cazzo mettermelo;
2) avrò sì e no tre o quattro brutte collanine di plastica, che non porto mai;
3) tutti i miei trucchi stanno comodamente da anni in una busta che fa costantemente avanti e indietro tra casa mia e quella di Germa, e non hanno bisogno di una postazione stanziale.
È diventato praticamente impossibile prendere una posizione senza sputare intolleranza anche da chi non ce lo saremmo mai aspettato, compresi noi stessi.
Nulla di strano.
Dopotutto, dove prolifera l’intolleranza, se ne genera sempre altra in nuove spontanee forme e direzioni nei confronti dell’intollerante.
Buffo, dovevamo essere nell’illuminata era dell’Acquario, ma ci stiamo morendo affogati dentro.
L’ho scritto su whatsapp e poi cancellato, lasciandoti solo la notifica della mia vigliaccheria.
Non so come dirti che non ce la faccio. Non c’è mai un momento giusto per dirtelo. Ogni volta c’è qualcosa di più importante che riguarda Ale, che È ovviamente la cosa più importante. Ma non c’è urgenza che non sia immediatamente sconfitta dall’urgenza per eccellenza, su cui puntare subito l’attenzione, lasciandomi come una stupida cogliona che si stava massacrando il cervelletto con futili idiozie.
È frustrante e soffocante.
Io mi sto sentendo in gabbia con te. Non so nemmeno più come fare a darti sostegno, ormai ridotto a pochi consigli o pareri che alla lunga si sono consumati e ingialliti come vecchi stracci sporchi di cui non te ne fai più un cazzo.
Sono consumata io, svuotata, svilita, impotente e talvolta feroce, quando alzo il tiro e ti svelo ciò che non vuoi assolutamente sapere.
Oggi mi hai detto che ti succederà qualcosa alla salute, che sei certo di questa cosa e me l’hai detta in un momento in cui io ero nervosa e ti stavo tampinando perche anche a me capita di stare di merda con il mondo e con te.
Ma io non voglio esistere per te solo quando sto bene, sono sul pezzo, sono divertente, utile, saggia, lucida e coccolosa. E non posso pensare che se sbarello per i cazzi miei o le mie paturnie di merda, tu fai il ricatto che starai male.
Io sono anche ‘sta roba qui, e ho tutto il diritto di esserlo, ho tutto il diritto di dare spazio alla mia immondizia caratteriale e mentale.
Non posso fingere di star sempre bene solo perché tu hai i tuoi problemi e non puoi permetterti di avere anche quelli di coppia. Io devo potermi esprimere e magari fare schifo, anche se questo comporta un temporaneo problema di coppia. Perché se non mi esprimo, il problema diventa permanente. Se non reggo io e non reggi tu, saremo costretti a reggerci da soli ognuno per i cazzi propri, ognuno per la propria strada.
Ma manipolarmi come hai fatto oggi con la minaccia della tua salute che cederà, cosi per mettere a tacere una discussione che riguarda noi, è veramente bieco e mi ha fatta stare male tutto il giorno.
Io non voglio vivere imbottigliata.
Se è questo di cui hai bisogno, per la tua salute, allora mollami.
Ma cosa cazzo lo scrivo a fare qui, che manco sai che un qui esiste ancora.
Quella volta che ho infranto il tuo bicchiere di Valladolid, il ricordo dell’Erasmus.
Quella volta. Cioè una settimana fa.
Ti avevo appena rifilato uno dei miei soliti pippotti sulla tua inadeguatezza nelle cose pratiche, mentre caricavo la lavastoviglie.
Si è abbattuto uno dei 4 bicchieri da vino e Murphy, quello della legge, ha ovviamente deciso che fosse il tuo, non gli altri 3 del servizio che mi ha regalato mio fratello. Ho esclamato un Merda, pensando fosse uno degli altri tre.
Ma quando ho visto in terra tra i cocci la V di Valladolid insieme ad altre lettere spezzate incise nella trasparenza, il Merda si è trasformato in una sussurrata più grave esclamazione, che ti ha fatto capire subito qual era il bicchiere sacrificato.
Quanti bicchieri ho rotto in vita mia? Tantissimi.
Ma questa volta una scheggia di vetro si è conficcata nel cuore, mi si è gelato il sangue e subito dopo un’ondata di sudore.
L’inadeguatezza nelle cose pratiche.
Rompere un bicchiere non è un dramma.
Ma noi scemi di merda che non conosciamo il significato dei drammi, siamo più fragili di un bicchiere di vetro da pochi euro preso ad una sagra spagnola con i fratelli che non hai mai avuto in vita tua.
Sono fragile io che ho pianto come una cogliona per averti infranto un ricordo, sei fragile tu che hai raccolto i cocci a mani nude e piedi scalzi, incurante come lo sono i bimbi del pericolo di tagliarsi.
È fragile il tuo tenero odio verso di me, è fragile il mio essere una madre incapace di insegnarti che gli oggetti possono avere un potere evocativo apparentemente potente ma non sono altro che una sciocca rappresentazione tangibile di ciò che è privo di materia, un’emozione, un ricordo, un sentimento.
Il bicchiere non è l’esperienza vissuta, non è la vostra amicizia, non è la bevuta, la risata o il pianto che avete fatto insieme.
Il bicchiere è solo il veicolo che trasporta tutte queste belle cose che porterai dentro per sempre, sul piano della coscienza, quando lo guardi distrattamente passando davanti alla libreria sulla quale lo conservi a prendere polvere nella tua lurida camera.
Lui è fragile, il bicchiere.
Il tuo vissuto no, quello non può farsi rompere in mille pezzi da una madre maldestra intenta a fare pippotti sull’inadeguatezza nelle cose pratiche.
Quella sera ho limato con impegno e la carta vetrata i bordi taglienti di ciò che è rimasto del bicchiere, ho sciolto a bagnomaria due candeline rosse Ikea profumate alla ciliegia, ho passato quei bordi nella cera e l’ho usata per trasformare i resti del gotto in una candela del cazzo, con tanto di stoppino.
Tu non ami particolarmente il vino, ma amavi quel bicchiere.
La verità è che so bene che non ami nemmeno le candele.
Ma noi fragili siamo fatti così, vogliamo tenerci stretto qualunque oggetto sia in grado di rievocare un passato che ci ha resi felici.
E allora penso che quando guarderai quel bicchiere monco che è diventato una stupida candela, penserai a Valladolid, al tinto de verano bevuto coi tuoi fratelli, e perché no, a quella primadonna di tua mamma, che è riuscita ad entrare involontariamente ma prepotentemente in un ricordo nel quale non c’entrava un cazzo.
L’amore di una femmina, in qualunque forma esso sia tra quelle contemplate in letteratura, è un genio del male e pretende di essere ricordato.
Mi sembra come se dovessi inseguire qualcosa ma nessuno mi ha detto cosa.
E io corro corro corro corro corro e corro ma davvero, non so cosa cazzo sto inseguendo.
Si paleserà prima o poi, il cazzo che sto inseguendo.
sabato 23 settembre 2023
E talvolta capita che arriva il momento in cui le persone decidono improvvisamente che certe manifestazioni non fanno più per loro, perché sono diventate sagge e riservate, perché tengono alla loro privacy e lottano per tutelarla, perché hanno problemi da risolvere ben più importanti e non hanno più tempo da sprecare in stupide pratiche adolescenziali.
Questa almeno è la loro versione.
Io ho il sospetto invece che questo momento arrivi proprio quando queste persone non hanno più benzina per accendere il motore delle loro emozioni, quando sono ben lontane da quella saggezza a cui credono di essersi elevate, arriva quando la loro preziosissima privacy non è diventata altro che un pezzetto di vita che conviene nascondere affinché non venga smascherato il doppio bluf e quando i problemi ben più importanti sono solo la scusa per rifugiarsi in pratiche altrettanto adolescenziali.
Pensano di non piegarsi ai meccanismi dei social che tanto criticano e schifano e non si rendono conto che questo modo di rifiutarli, e i motivi per cui lo stanno facendo, le hanno rese maggiormente schiave dello stesso meccanismo, costringendole a perdere quello spirito puro e giocoso, che ha sì la sfrontatezza dell’adolescenza, ma anche quella freschezza spontanea che restituisce al termine tutta la sua accezione positiva.
Quello spirito che un tempo non si vergognava di esprimere i piccoli momenti di “trascurabile felicità”, se davvero di felicità si è trattata.
Detesto l’idea che anche io stia diventando così, per puro spirito di adeguamento.
Alessandro Mendini era un celebre architetto. È morto qualche anno fa.
Noi ignoranti non sappiamo nulla di lui.
Ma se guardiamo l’immagine sotto di sicuro riconosciamo la marca dell’oggetto: Alessi.
Probabilmente ne abbiamo uno in casa o una imitazione a buon mercato.
Se sei un artista e volessi dedicare una tua opera alla persona che hai amato, magari faresti un quadro, una poesia, una scultura, una canzone, una coreografia.
Lui no, lui ha fatto uno stupido cavatappi che ha chiamato Anna G.
E così la bella Anna G. è entrata nelle case di tutto il mondo, ha alzato le sue braccia e ha stappato migliaia di bottiglie di vino, per la gioia di chi lo ha bevuto.
Io credo che sia l’opera più romantica e significativa che un artista abbia mai dedicato alla sua amata.
Mah. Non so neanche a chi lo sto chiedendo se si vede.
Quindi come faccio ad essere contenta, se da un po’ di tempo non so manco più a chi mi sto rivolgendo…
Maledetti punti interrogativi orfani di un destinatario che spussano di solitudine, buttati nel water di un brutto cesso senza finestra e con la ventola rotta.
Come un’imitazione imperfetta delle macchie di Rorschach, quelle che usavano per cercare di scandagliare i meandri della mia acerba personalità, tra le poche piazze luminose delle mie aspirazioni e i tantissimi vicoli incerti e tortuosi delle mie ossessioni e paranoie, per poi deliberare, con gentilissima ferocia, sulla mia incapacità di pascolare, senza troppo disturbare, presso il reparto prenotazioni di una famosa compagnia di crociere genovese.
Risponda pure liberamente, non esiste una risposta giusta e una sbagliata.
Col cazzo che non esiste, se no non useresti le macchie per fare una selezione di lavoro.
Quante belinate ho pensato di sparare di macchia in macchia, sperando di azzeccare la risposta (giusta) che mi avrebbe fatta scegliere tra centinaia di altri sfigati come me che a loro volta tentavano a caso la risposta (giusta), quando l’unica risposta sensata da dare, senza scomodare le nobili discipline della psicologia e della psichiatria, era “ma brutti coglioni, secondo voi cos’altro potrei vedere oggi nella vostra stronzissima macchia, se non la rappresentazione di una bella busta paga e di un contratto a tempo indeterminato nel reparto Booking della vostra azienda del cazzo”.
Non mi è mai venuta la risposta giusta. Non mi hanno mai scelta infatti.
Ora guardando questa imperfetta imitazione di macchia di Rorscharch, mi chiedo chissà come sarebbe stata la mia vita se trent’anni fa avessi dato la risposta giusta e fossi andata a pascolare negli uffici della Costa a vendere crociere.
Sarei curiosa di sapere cosa vedono altri in questa imperfetta imitazione di macchia di Rorschach.
Io vedo il futuro che ho avuto 30 anni dopo quei test inutili che pretendevano di svelare le mie capacità e le mie inettitudini da impiegata.
Vedo buio, luce, fumo, albe e tramonti, profili, nascita e mutazione, sangue che scorre nelle vene, emozioni che scorrono nel letto nero delle mie paure, vedo cose nate dritte e che ho trovato il coraggio di rovesciare, per imparare che anche le cose storte possono a loro modo essere belle, e forse mi rendono meno illusa e meno schiava.
È cosa certa che se 30 fa avessi azzeccato la loro risposta esatta a quelle macchie di Rorschach, questa mia imperfetta imitazione non sarebbe mai esistita.
Vedi a volte l’interpretazione errata di una stupida macchia come può cambiare la rotta della tua nave da crociera.
Forse la risposta che diedi allora, (Scusate, ma io in ‘ste macchie ci vedo solo uteri) non era poi così errata.
Pensavo che quest’anno avrei passato le ferie più merdose da un po’ di anni a questa parte.
Senza fare troppo la tragica, si intende, dato che sono arrivata a una età e a un punto della mia vita in cui devo aspettarmi di tutto, ma finché il tutto non riguarda la salute o i miei affetti, per carità, meglio limitare i mugugni, che se mi sente Quello che c’ha il black humor più spiccato dell’universo son cazzi amari.
Però insomma, diciamo che la mia soddisfazione generale lascia un po’ a desiderare ultimamente, e quindi queste per la questura dovevano essere le ferie più merdose da un po’ di anni a questa parte.
Battezzate così quasi con orgoglio e pregiudizio.
Ma eccole qui sotto le mie ferie merdose, illustrate in 4 foto.
Tre giorni e tre notti in compagnia di un serpente e di una scimmia.
Io, loro, il furgone e un tuffo ogni tanto in quell’enorme minestra con la pastina galleggiante (noi bagnanti) che è il mare a ferragosto.
Senza nemmeno poter usare la macchina per non perdere il parcheggio che ho trovato per una botta di culo la sera in cui sono arrivata, perché la nostra vita funziona così, se non hai il parcheggio garantito non sei libero di vivere.
Se non sei libero non puoi andare in spiagge fighe. Se non vai in spiagge fighe sei pastina galleggiante nella minestra su cui si affaccia una spiaggia altrettanto affollata.
Ho passato i miei tre giorni in un furgone senza cesso e senza l’obbligo di rendere conto a qualcuno se voglio stare chiusa qui per ore.
Protetta da uno stupido strato di lamiera di annata color cacca in mezzo al passaggio di decine e decine di persone caciarone che non possono immaginare lo splendore del mio isolamento; io fortunata eremita tra i villeggianti costretti a stare in compagnia spesso nemmeno troppo gradita.
Tipo quell’astronauta in orbita nel minuscolo tratto della Via Lattea dentro il lem fatto di cartapesta e stagnola che dicono sia atterrato sulla Luna.
Senza spazio e senza tempo, senza la forza di gravità che ti attira inesorabilmente verso le rotture di coglioni, pur inseguendomi anche qui l’immancabile richiesta di comprare il tele7 della prossima settimana.
Con l’unico desiderio, nei rari momenti di rapporti sociali che ho dovuto intrattenere, di chiudermi di nuovo nel microcosmo col serpente e la scimmietta, i compagni silenziosi e rispettosi del mio benessere.
Sono state ferie merdose bellissime, le ferie perfette in questo mio momento storico un po’ del cazzo.
E come tutte le cose belle, le ferie merdose sono durate troppo poco.
I vari tele7 mi stanno aspettando assetati come vampiri.
Ho bisogno di farmi un po’ di chiarezza tutto d’un fiato.
I dirigenti della mia azienda cagano il cazzo perchè bisogna mettere dentro ancora lavoro per stare in filino più “tranquillini” con gli utili al netto dei compensi che si prendono mentre noi merde sputiamo il sangue dalla mattina alla sera isteriche e imbruttite dalla pressione di clienti che a loro volta cagano il cazzo perché i loro ospiti alcolizzati e psicopatici VVVIPS di merda partners di una multinazionale mondiale mica possono portarsi in quella merda di fogna che loro chiamano bocca uno schifo di posatina di legno compostabile durante il Gala Finger Food Dinner a buffet ma tu sei solo una lurida morta di fame che non capisce l’importanza di queste persone e all’inizio insisti perché cosa sarà mai se un essere umano come un altro si mangia la crudità di pesce con la forchettina di legno compostabile durante un finger food e poi giù a scusarti se il catering che si ciuccia 150 euro a persona moltiplicato per 306 a fronte di quel finger food non può darti la posatina in acciaio perché se no gli tocca pagare un’ora in più i camerieri che devono separare la ciottolina da buttare dalla posatina in acciaio da lavare ma non trovi soluzione e ti pare tutto così difficile tutto così impossibile e insopportabile ma stai davvero andando in sbattimento pesante per queste cose davanti a decine di fogli excel o di word che non riesci mai a completare e che diventano sempre più grandi e mostruosi che ti inseguono anche nei sogni o durante le tue ferie condotte da poveraccia in un furgone in compagnia di budget da capogiro rooming perennemente in overbooking contratti scadenze Ecm che se te ne dimentichi uno ti saltano tutte le sponsorizzazioni e chi le sente poi le aziende incarognite chi li paga i fornitori chi rassicura il committente che non farà una figura di merda a parte quella di dare la posatina in legno compostabile ai baroni dei revisori dei conti mentre hai il pensiero che anche stasera arriverai in quella casa che non riesci a tenere in ordine alle ottoemmezza se va bene e devi preparare qualcosa da mangiare ma il frigo ti manda affanculo appena lo apri perché non hai fatto la spesa ne per te ne per la mamma che voleva l’aglio i cartocci di vino le zucchine e il telesette e ci penserai domani quando ti svegli nuovamente alle 6.30 per iniziare un nuovo giro di giostra in senso antiorario che quando ci sei sopra vorresti vomitare sul giostraio che ti guarda con un ghigno e non schiaccia mai il pulsante stop per farti riprendere pochi minuti e quando ti svegli con la nausea già lo sai che ti roderà il culo perché non hai avuto manco la forza di svegliarti un’ora prima per farti la tinta su quella crescita crespa e grigia che sembri una vecchia puzzola proprio nel giorno in cui festeggi 8 anni di relazione e porca troia ci tenevi ad essere un po’ più figa stasera per andare a mangiare le ostriche con lui anche se diciamoci la verità l’ostrica a sto giro se la sarebbe un attimo meritata su per il culo con tanto di guscio ruvido e leggermente tagliente che ti ci mancavano giusto le sue cazzate destabilizzanti per aumentare la velocità dei giri di giostra al contrario ma va beh che cazzo devi fare mangiati quest’ostrica e passaci sopra che mica puoi anche tu cagare tutti i giorni il cazzo a lui o al capo che vuole metterti più lavoro sulla schiena per stare tranquillini o al figlio che lascia sempre la casa che è una merda mica puoi farlo ma sì fumiamoci un’altra sigaretta e facciamoci sta dormita sopra che in fondo non sta succedendo nulla di tragico tranne il fatto che tutte ste piccole menate di cazzo gestite senza punteggiatura tutti i capricci tuoi e di chi ti sta intorno di chi ti da da mangiare di chi ti dice che ti ama di chi vuole il tele7 di chi deve fare un gala finger food dinner con posate degne di quelle tre letterine che si portano appresso la Vi la I la Pi che dio se li inculi tutti insomma non ci sarebbe nulla di tragico se non fosse che dentro a tutto sto sacchetto della rumenta carico di seghe mentali che ci lanciamo reciprocamente addosso stiamo perdendo totalmente il senso della decenza della vergogna ci stiamo perdendo la strada l’alba il tramonto la musica la cura di noi stessi e degli altri il lume della ragione tutti incarcerati dentro le nostre brutte depressioni le manie le sindromi da primi della classe le frustrazioni le insoddisfazioni amorose e professionali proiettandoci verso obiettivi così tragicamente sbagliati.
Finché non arriva una botta di vita e te la dà proprio chi si sta affacciando alla finestra della morte.