lunedì 22 novembre 2021

Giorni senza senso


Tanti anni fa sono stata a Verona in visita ad un istituito di riabilitazione per bambini cerebrolesi.

Avevo 20 anni e ci aveva spediti lì la Conny per fare due giornate di corso sul metodo Doman (tecniche di stimolazione dei 5 sensi per la rieducazione di cellule cerebrali in sostituzione a quelle danneggiate) in modo che fossimo un minimo informati prima di mettere le nostre mani addosso a Paola.

Lì a Verona, e successivamente con la lettura del libro Il Cervello Incompiuto, ho imparato tante cose interessanti, di cui in gran parte oggi non ricordo una bella mazza. 

Mi ricordo però che ci chiesero quale fosse, secondo noi, il senso senza il quale è quasi impossibile vivere. Senza la vista o senza l’udito vivi, di merda, ma vivi. Sorprendentemente scoprii che è il tatto, perché è il senso che ci dona la consapevolezza del nostro corpo. Il sentire che il corpo ci appartiene, tramite il tatto, permette al cervello di fare arrivare i suoi commandi in ogni sua parte, senza questo sentire sarebbe impossibile anche muoverlo.

Da allora sono diventata una fanatica del tatto, io amo toccare, accarezzare, studiare al buio anche solo una piccola porzione di questo meraviglioso organo che è la pelle usando la mia pelle, in modo che possa imparare a riconoscerne ogni suo particolare, seguirne i perimetri e calcolarne l’area con una logica matematica che solo i miei polpastrelli e i miei palmi conoscono, mentre immagino quale sensazione può provare il destinatario dei miei studi tattili.

Oppure mi diverto a sperimentare la disobbedienza di un mio arto ‘addormentato’, che in quel momento non si sottomette al controllo del mio cervello e trasgredisce qualsiasi comando di sensazione o movimento.

La cosa certa comunque è che nessuno, alla domanda “qual è il senso senza il quale è impossibile vivere” penserebbe al gusto e all’olfatto, perché dai, in fondo sono considerati un po’ gli optional migliorativi che madre natura ci ha donato, gli accessori preposti ad ottimizzare le caratteristiche funzionali e tecniche del veicolo che siamo, per renderci la vita un po’ più comfortable, come il climatizzatore diviso per zone o i sedili riscaldati. 

È ovvio, naturale e giusto che di fronte a un deficit della vista o dell’udito o del tatto si parli di enormi drammi e vite compromesse, e su questo non discuto. Ben più occulto e sottovalutato sarebbe un dramma funzionale e psicologico provocato da un deficit permanente degli altri due sensi e forse per questo nessuno ha mai pensato di immaginare la propria vita senza.

Ma oggi io mi trovo chiusa in casa a sussarmi sto maledetto Covid che finalmente è riuscito a fottermi, e sto pensando che il primo vero ricordo della mia vita, e giuro che non sto scherzando, è legato al senso meno cagato nella scaletta dell’importanza vitale, ovvero il gusto, quello che adesso ho perso insieme al secondo senso meno cagato, l’olfatto.

Il mio ricordo mi parla di un biberon colmo di latte, la cui tettarella ha un buco enorme dal quale passano generosamente tocchi di gustosissimi biscotti maciullati, probabilmente simil plasmon. Il mio ricordo è questa sensazionale sensazione di conforto, godimento infantile e bontà che inonda la mia bocca e mi porta sull’orlo della commozione (ma c’è anche la sensazione tattile della tiepida poltiglia morbida e vellutata sulla lingua che esalta maggiormente l’estasi di sapore dolce).

Mia madre dice che quando ero più grandicella allargava i buchi del biberon con un ferro da calza o con delle forbici in modo che passasse tutto più velocemente, ‘per far prima’ e non fare tardi all’asilo, quindi suppongo che non avessi meno di tre anni.

Non avevo mai pensato che questo fosse il mio primo ricordo fino ad adesso.

Sono giorni che non sento più sapori e non sento più odori, non so per quanto durerà questa storia, ma mi mancano tantissimo.

Sono quelle cose che, appartenendomi da 49 anni, dò per scontate, è tutto così naturale e dovuto che io debba godere di ciò che metto in bocca. Non è scontato che io possa per tutta la vita sentire, vedere o camminare, ma lo è che io possa gustare e odorare.

È scontato sentire tutta la gamma di sapori che esplodono in bocca e ad ogni masticata variano di tonalità e intensità, ed è scontato sentire i profumi o gli odori sgradevoli, perché è cosi da quando nasci, da quando ti ricordi di esistere. È così, è gusto e olfatto che ti accompagnano in ogni istante vissuto, anche il più insignificante.

È così quando annusi la tua pelle o quella della persona che abbracci, è così quando fai la doccia e senti il profumo del bagnoschiuma, quando cucini e metti la faccia sulla padella, è istintivo farlo no?, è così quando ti lavi i denti, quando sudi e sai vergognosamente di fare schifo, quando stai per bere un bicchiere di vino e prima di assaporarlo lo annusi, quando fai la cacca, è così quando dai un bacino sulla testa di tuo figlio e respiri tra i suoi capelli, quando metti il gel nelle mani e le porti subito al naso per sentire se sanno solo di alcool o se sanno anche di buono, quando ti metti una maglietta pulita, o quando dici no questa maglietta è da lavare.

È così quando fai l’amore, quando saluti un’amica per l’ultima volta, quando baci, quando sei al mare o in montagna, quando sei in chiesa o in ospedale, quando sei in un paese straniero o in un negozio di fiori, è così quando sei in pizzeria, è così quando sei felice se lui ti dice che una di queste sere ti porta a mangiare il pesce, è così quando entri in casa della mamma, è così quando ti commuovi per una pasta, è così e basta.

Io non sento più nulla da giorni, e al di là del disagio della febbre, della tosse persistente, dello stare in isolamento, delle mancanze, degli scrolli mentali, al di là del divano che è diventato un tutt’uno con la mia schiena e il mio culo, questa cosa che non sento un cazzo è qualcosa che mi turba, mi fa sentire tristissima, piatta, frigida, derubata, come se al mondo mancassero i colori, al cielo le stelle, alla musica il suono e ai corpi le anime.

Come se fossi un manichino immobile in un mondo finto tutto fatto di plastica.

Sono giorni senza sensi, they wear me out e mi manca persino l’odore della mia merda.



 

Fake Plastic Trees


martedì 16 novembre 2021

 Che voglia di 

Mi vergogno a continuare la frase.

Non è scopare, o drogarmi o altro.

È qualcosa di cui vergognarsi tantissimo.

lunedì 8 novembre 2021

Prendimi a pattoni

Ti penso spesso e mi chiedo se ci stai guardando.

Sento più che mai una nostalgia fortissima di persone come te, eppure ultimamente non è che fossimo così spesso in contatto e certe volte mi hai fatto venire dei nervosi che ti avrei preso a pattoni. Ma questo semplicemente perché avevamo visioni differenti su certi aspetti morali e sociali.


Tu eri troppo rigida, anche con te stessa.

Io più morbida, più indulgente, anche e soprattutto con me stessa.

Alla fine dicevi sempre che io rispetto a te ero dotata di una pacifica saggezza, ma a pensarci bene io lo definirei più un saggio paraculismo.

Il tuo terrore era predicare bene e razzolare male, e questo terrore ti ha impedito forse di abbandonarti in pieno alla meravigliosa persona che eri a prescindere, senza metterti continuamente sotto la macchina che impartisce i comandi di ciò che è giusto fare o dire. 


Comunque sento la nostalgia di persone come te.

Sapevi di essere una grande ma ascoltavi noi piccoli e da noi riuscivi a trovare qualcosa da imparare, anche quando non c’era un cazzo, tu ci facevi sentire grandi.

Sapevi fare della morale a volte fastidiosa, ma bastava un niente perché avessi una visione illuminata anche di ciò che ti pareva buio.

Sapevi amare, e non ti sei mai fatta un vanto di tutto questo.


Eri bella, eri buona, eri divertente, eri cazzuta, eri una persona che i pattoni li tirava belli forti ma che li sapeva anche prendere, senza paura, senza vergogna, vestita di regale umiltà.

E quando ti volevi bene e allentavi leggermente la tua solida struttura, eri semplicemente pazzesca, un po’ naufraga e un po’ salvagente.


Mi manca la tua ridicola voce nasale, mi manca la tua risata, un tuo abbraccio.

Dove sei, adesso, Simo?

Sei dentro a questo groppo in gola?

Mi stai guardando? 

Ma giura, è successo davvero quello che è successo?



Poetica.

“Dimmi come stai,

perché non parli?

Ora tienimi con te, la tua mano nel buio

guarisce la mia solitudine.”


martedì 2 novembre 2021

Bull-shit.

 Ultimamente vorrei un poeta tutto mio
che mettesse in versi
il mio approccio verso i piccoli episodi della mia vita quotidiana.
Vorrei che fosse una creatura bellissima,
fatta come una specie di chimera,
metà Edoardo Sanguineti
e metà Frank Gramuglia,
con qualche inserto di Natalino Balasso
e Ugo Norrea.

Insomma, mi guardo intorno e sono indecisa  se
tornare con le chiappe sulla sedia dai miei psicologi
o se optare per diverse manciate di più economici e liberatori porchiddii,
lanciati un po’ qua e un po’ là,
così, generosamente, leggiadramente,
“con goduria, tripudio,
in buona fede”;
senza impegno e senza prendere troppo la mira,
esattamente come quando gioco a freccette:
dove becco, becco,
‘tanto quelli son come il nero
che va bene su tutto e su tutti:
sarebbe ogni volta un glorioso bull.


domenica 19 settembre 2021

Il gioco della sedia

Stasera seduta sul divano di un lussuoso appartamento pensavo alla crudeltà del gioco della sedia.

Ci sono tot persone e tot sedie. 

Persone = Sedie -1

Si inizia a girare intorno alle sedie, mentre la musica suona, e ognuno in cuor suo sa che appena la musica smette di suonare, potrebbe essere lo sfigato che rimane senza sedia, l’unico in piedi sopra a tutti quei volti che lo guardano vittoriosi e sollevati perché sono riusciti ad accaparrarsi la loro cazzo di sedia sotto al loro cazzo di culo prepotente che ha spinto fuori il suo, costringendolo a uscire dal gioco.

Ma come in tutti i giochi, la fortuna è una maledetta ruota che gira e al prossimo turno il culo senza sedia potrebbe essere il tuo.


Io vorrei tanto saper scrivere cosa provo stanotte ma non riesco.

Fastidio è la parola più banale che riassume qualcosa, ma non abbastanza.

Vedo arrivare le notifiche di messaggi che non ho voglia di leggere e ai quali risponderei con un semplice e significativo mavaiaffaculo.

Ma l’insistenza dei messaggi mi esaspera e alla fine rispondo con l’unica cosa che, in questo specifico caso, non avrei mai voluto fare ma che faccio come fosse una sorta di liberazione: togliermi di mezzo da questo valzer insopportabile di smancerie dagli apparenti fini nobili, in cui il mio ruolo è goffo, inutile e colmo di disagio, e lasciar ballare i ballerini.

Trovo tutto questo quotidiano così squallido e scontato (rispetto all’immenso sentire di ben alte situazioni) da aver volgia di scappare lontano per non farmi imbrattare e ingoiare dallo stupido timore di un fenomeno col culo prepotente, perché qualche anno fa ho capito che il gioco delLa Sedia può far molto male e ho deciso che non ci avrei mai più giocato.


martedì 31 agosto 2021

Simona

Ciao Simo,

Ieri sono stata a casa tua e poi al tuo Rosario.

C’erano delle cose che volevo raccontarti e avrei voluto telefonarti.

Ero lì e pensavo minchia appena la becco le dico sta cosa. Il pensiero, per quanto complesso o lungo sia, riesce a essere contenuto nell’ambito di una frazione di secondo, dopo il quale mi ricordavo ogni volta che tu in effetti c’eri ma eri quella nello scatolone di legno, pertanto non potevo telefonarti e se lo avessi fatto, avrebbe risposto Fabio. Alla fine cazzo ci puoi impazzire dietro a questo loop infinito e veloce di pensiero e consapevolezza.

Comunque, tu te ne stavi lì con un vestito a fiori, un foulard al collo, il viso tirato e truccato, le braccia magre e segnate dalle flebo e un paio di bigliettini teneri tra le mani. 

Avevi anche il ciuccio di Fili, tra le mani. 

Ecco lì ho pianto. Al ciuccio proprio non ce l’ho fatta. 

Sei mamma tutta, dalla testa ai piedi, ma vera mamma italiana doc intendo, di quelle che porterebbero il ciuccio all’occorrenza anche se il figlio ha 19 anni, ché non si sa mai che possa avere bisogno di conforto vedendoti lì distesa immobile. Quindi ci sta che ti mettessero il suo ciuccio in mano. Ho pensato che lo stesso identico ciuccio di gomma che apparteneva a Edo ce l’ho anche io. Ho pensato che devo dire a chi si occuperà di sistemare il mio corpo nello scatolone di mettere anche a me il ciuccio di Edo in mano, bella idea che mi hai dato. Te la copio.

Insomma, dicevo, tu c’eri. E il fatto che fossi lì come protagonista mi impedisce adesso di prendere il telefono e raccontarti come è andato il tuo Rosario.

È andato bene.

Appena entrata in casa ho beccato tua sorella davanti alla cucina. Il pensiero che viaggia alla velocità della luce stavolta è stato di dire Ciao Simo, perché per me lei eri tu. Ieri vi somigliavate nell’aspetto e nei modi più di quanto non vi siate mai assomigliate.

A casa tua c’era l’odore della tua morte. Ma tu non eri in quell’odore. Tu sei sempre profumata di buono e sai, il cervello è potente: con un po’ di concentrazione dopo  poco sono riuscita a non sentire la morte ma a sentire la Simo. Il tuo naso era lo stesso che quando sorridi si arriccia, solo che lì era leggermente più assottigliato e purtroppo non era arricciato dal sorriso. Le tue labbra erano sottili e lievemente screpolate ma a fianco, appoggiato dentro lo scatolone, c’era un burro di cacao che probabilmente ti mettono ogni tanto per ammorbidirle. 

Tu c’eri, ma non eri quella nello scatolone, eri tutta intorno a noi, ci ascoltavi, sorridevi anche col naso, mentre noi parlavamo, mentre noi piangevamo.

Ho parlato molto con la Guerrina, persino di congressi e tu c’eri, ascoltavi e magari intervenivi anche, ma noi non potevamo sentirti. Io ho giocato per un’ora con il tulle bianco che ti avevano steso addosso. Ma anche con il raso color crema che rivestiva il tuo scatolone di legno. Erano come le briciole con cui gioco quando sono a tavola. Parlavo e giochicchiavo strofinando i tessuti tra le dita.

Fabio mi ha raccontato i tuoi ultimi giorni, mi ha descritto con che grazia tu hai accompagnato lui e lui ha accompagnato te in questo difficile e prematuro passaggio. Pieni di Grazia. Non è un’espressione bellissima? (Grazie Germa).

Beh, è così che avete condotto la cosa voi. In grazia piena.

Poi siamo usciti per andare in chiesa. Tua madre prima di uscire ti ha riempita di baci sulla fronte. Ti diceva Ci vediamo dopo amore mio, eh? Ciao amore mio. 

Ti ho baciata anche io e la tua fronte era fredda.

Nel tragitto ho parlato con tua mamma.

Lei ha pianto, ha detto che questo dolore non lo augura a nessuno.

Ha ragione.

Una madre non dovrebbe mai assistere alla morte di un figlio. Mai. Questa cosa Dio dovrebbe un attimo annotarsela su un qualche taccuino. Proprio lui, che è morto davanti a sua mamma.

Ha detto che tu spesso hai fatto da mamma anche a lei, perché lei è una mamma un po’ bizzarra, proprio così ha detto. Io ho sorriso, questa cosa tu a me l’hai detta tante di quelle volte. Sentirla da lei mi ha fatto tenerezza.

Poi si è avvicinata una tipa strana, un po’ fuori di testa. Stavamo camminando verso la chiesa, lei era davanti a noi. Così dal nulla si è girata e si è presentata, ha detto il nome, io le ho detto il mio. Tua madre di nascosto ha sbuffato, io le ho chiesto se la conosce e lei ha detto che è una parente della cognata di boh? Forse tua o sua. Ha aggiunto: ma non ci siamo proprio.

Era veramente fuori come un culo Simo. Stavo per telefonarti e farmi dire da te chi poteva essere. 

Poco dopo l’ho vista esplodere in lacrime con tua sorella e le urlava “io non ho neanche fatto in tempo a conoscerla bene, mi ricordo solo i suoi occhi azzurri!” tua sorella scazzatissima non so cosa le abbia detto ma dal tono sbrigativo era chiaro che avrebbe voluto risponderle “e allora, gioia mia, cosa cazzo vieni a piangere da me”.

Che scenetta Simo, dovevi vederla.

Senza contare il fatto che i tuoi occhi non sono manco azzurri.

Vuoi sapere di Fili? Bello come il sole. Alto, prestante, un taglio di capelli che gli sta da dio, un sorriso dolce per tutti, un abbraccio caldo per tutti. Solo in chiesa era sulla panca curvo  e a forma di jonny greenwood alle tastiere, lo stato d’animo accartocciato su se stesso, ma alla luce del sole di fronte alle persone ha tenuto botta da vero ometto. 

Fabio mi ha confidato che Fili vorrebbe prendersi un anno sabbatico e non iniziare subito l’università. Non ti incazzare Simo. Non lo farà, ne sono certa. È solo il suo modo per sfogare il suo dolore con qualcosa che sappia di estremo. Ma non lo farà. Posto che se davvero desiderasse farlo, sai come la penso circa le decisioni dei nostri ragazzi. Ma ovviamente te non la prenderesti bene, quindi basta, stop, non parliamone più se no finisce che discutiamo, perché ‘tanto io, anche se hai ragione, devo sempre darti addosso.

Il prete, beh Simo, ti dico solo che forse era un po’ ciucco.

Eh oh. Pensavi di poter avere un prete in bolla al tuo Rosario? Mentre parlava a Fabio e a tua sorella, ha detto “Anvedi, come dite voi a Genova” e tua sorella lo ha subito ripreso con la sua bella cocina genovese (la stessa tua) “no, guardi che noi a Genova anvedi ce ne guardiamo bene dal dirlo. Eh.”

Usciti dalla chiesa tua mamma ha mugugnato pesante. Il prete non le è piaciuto per niente. Manco si è degnato di andarla a salutare. Tua sorella l’ha sedata dicendo che aveva salutato Fabio e Filippo. Comunque per me tua madre non aveva tutti i torti. Che cazzo, è la mamma e doveva andare a salutarla. 

Tuo padre sempre un po’ in disparte; io, non so perché, non sono riuscita ad andare a salutarlo. Gli sorridevo da lontano, ma lui sembrava altrove, in un’altra dimensione, sempre, chissà, magari ti stava cercando in un posto tutto suo della sua mente. 

Sono venuta via con la Guerrina. L’ho accompagnata a casa a Rivarolo. Brava persona. Brava organizzatrice di eventi: pensa che alle 19.30 ti ha tirato fuori dal cilindro l’organista per oggi, visto che Don “Anvedi” se ne è sbattuto il belino di cercarlo.

È andato bene Simo, c’era tanta gente, non oso immaginare oggi al funerale. 

Ah, forse oggi voglio fare la comunione dopo esattamente 25 anni che non la facevo. 31 agosto 1996 l’ultima volta.

La faccio così, sporca come sono. Chissenfrega.

Ci volevi tu per farmela fare.

Quanto sei amata Simo, quanto sei stimata.

Hai tutte le ragioni di esserne orgogliosa, perché hai dato tantissimo.

Pensa che mi ha scritto un messaggio bellissimo anche la Silvia comunista con cui ti eri scontrata per la questione di Multedo. 

Quanto vuoto che tutti dovremo colmare.

Vorrei telefonarti, dirti queste cose e poi farmi raccontare tutto di te, dove sei, cosa fai, come stai, se hai scoperto qualche segreto interessante sull’universo, o qualche ciatellamento che vedi dall’alto.

Sei in un posto bello, vero?

Dai, fatti sentire in qualche modo.

Batti un colpo sui nostri cuori, tu che hai sempre avuto il controllo su tutto, non può essere così difficile per te.

Noi per ora siamo sempre qui, tra il mare e i monti: i tuoi amici, la tua mamma e il tuo papà, la tua sorellina.

Il tuo Fabio, il tuo Filippo.

Fallo soprattutto per loro.

Batti un colpo su questi cuori pieni di amore per te e fai brillare ancora i loro occhi.

Sihì?

Ma certo, io so che lo farai.


lunedì 2 agosto 2021

Marimo



 Buonasera,

(È notte ma finché non decido che è ora di chiudere gli occhi per me è ancora sera.

La buonanotte è un saluto diverso da tutti gli altri. Non si può dire buonanotte e poi iniziare un discorso. È un saluto di commiato, se si dice buonanotte bisogna levarsi in fretta dal cazzo.)

Siamo ai primi di agosto, oggi il mio fratello maggiore compie gli anni (auguri Marchetto, anche se qui non li leggi ❤️ Sono il 7 e il 9 che moltiplicati insieme fanno 63, non saranno pani e pesci, ma vedi che se mi impegno bene i miracoli so farli anche io?).

Stasera sto pensando a 4 cose che riguardano questo periodo:

- la prima dose di vaccino appena fatta - e vabbè, ormai è fatta e non c’è molto altro da aggiungere

-  la mammografia che avrò tra due giorni

- l’anniversario fra tre.

Sulla mammografia non ho nulla da dire se non che fa parte di un difficile capitolo che porta il nome di una amica, a seconda del risultato potrò dire “ma perché anche a me?” o “perché solo a lei?”.

Entrambe le domande saranno dolorose, solo che la seconda mi permetterà di continuare a pensare alle solite cazzate quotidiane.

L’anniversario, 5 agosto 2015, data che ha stravolto in positivo tutta la mia vita e 5 agosto 2018, data che ha stravolto la mia natura e cambiato per sempre il mio DNA affettivo, facendo di me un mostrillo di ossessioni e paranoie. (Un po’ come quei folli di merda dicono del vaccino, che ti cambia il DNA, ma su questo argomento non avrei voluto aggiungere altro, perché alla fine un po’ ci credo).

Il 5 agosto come il 22 giugno, gli ossimori delle ricorrenze, due date e quattro motivi opposti che le rendono speciali.

Vita e morte, “vita” e “morte”.

La quarta cosa a cui sto pensando è che tra 10 giorni ricorre un altro anniversario: i 20 anni della mia maternità.

Quest’anno a lui vorrei regalare un Marimo, l’alga a forma di pallina che vive in un barattolo di vetro pieno d’acqua e che può campare anche cent’anni. Anche duecento, se gli gira.

Spero di trovarne uno che abbia più o meno la sua età.

Il Marimo di 2001 odissea nel barattolo.

Mi piace l’idea del Marimo perché è un piccolo essere vivente, perché è giapponese (e lui ama il Giappone), perché respira e fa le bolle e perché ogni tanto danza nel suo barattolo, poi si posa e si riposa.

Ma la cosa che trovo più significativa del Marimo è che ogni tanto va strizzato delicatamente per liberarlo dalle impurità che gli si accumulano addosso.

Desidero che il mio giovane ventenne impari a strizzarsi quando non ne può più, quando i pensieri si fanno velenosi, le preoccupazioni intossicano il corpo e le date belle diventano ossimori e si fanno offuscare dagli eventi meno belli.

In fondo in questo universo non siamo altro che tanti piccoli coglioni dai quali strizzar via le rotture, prima del tuffo per tornare nel barattolo della vita e riprendere a respirare, fare le bolle, danzare, finire sul fondo e riposare, fino alla prossima strizzata di una mano che sappia prendersi cura di noi.


Mi congedo, ora posso dire buonanotte.



domenica 18 luglio 2021

Sunto di una vacanza

Matrigna (o madrigna) s. f. [dal lat. tardo matrigna, der. di mater -tris «madre», esemplato su privignus «figliastro»]


1. Seconda moglie di un uomo, rispetto ai figli nati dal primo matrimonio: la mia m.la nostra m.; una buona m.; la cattiva m., come personaggio tipico di fiabe popolari (Biancaneve, Cenerentola, ecc.) simbolo di tirannia e talvolta di perfidia.

2. In senso fig., con riferimento a persone, forze materiali, entità astratte e sim. che si dimostrino poco amorevoli, ostili, avverse, crudeli. 


“Magari tra poco vi lasciate”, antico proverbio di Borghetto Santo Spirito rivolto alle matrigne.


Cinque parole, cinque pugni nello stomaco.

Per te, Matrigna, questa vacanza finisce qui.




mercoledì 16 giugno 2021

Scherzavo

 Una volta, poco tempo fa, ho scritto qui che sentivo una data di scadenza incombere su di me. 

Beh, scherzavo. 

Cioè non lo sapevo di scherzare, pensavo di essere seria, ma quando mi accorgo di aver detto una minchiata io scherzo sempre, quindi scherzavo anche quella volta.

Parlavo forse di sentimenti, di non sentirmi mai al sicuro, o di provare il dispiacere della giovinezza che si allontana, la seccatura di un nuovo metabolismo che mi sta sul cazzo o qualcosa del genere. Credevo di parlare di cose serie, e invece stavo solo scherzando.

 Conoscere la data di scadenza è qualcosa di ben diverso da queste stronzate scritte per noia in quelle notti dove ho solo voglia di allenarmi nella pratica della frustrazione.

Sarebbe molto bello, invece, che smettessi di praticarla e tornassi  a coricarmi sul mio letto ad un’ora decente, anziché accartocciarmi su un divano ad un’ora impossibile; sarebbe bello che imparassi ad avere  più cura del mio riposo, dei miei polmoni, del mio corpo e della mia mente tutta.

Sarebbe molto bello, anche , che prima di chiudere gli occhi, imparassi a ringraziare per ogni giorno vissuto senza sapere quando e di cosa dovrò morire, invece che sparare cazzate sulle date di scadenza.

Perché questo è un privilegio di cui non si apprezza mai abbastanza il valore.

Ci sono persone che con una presunta data di scadenza ci convivono davvero, mica per scherzo. Un bel giorno qualcuno arriva e gliela stampiglia addosso senza tanti complimenti. Come un addetto agli scaffali di un supermercato anni 80, solo che è in camice bianco.

Mi immagino che per loro inizi una corsa al tempo, fare cose prima che arrivi quella data, ma fare anche cose affinché quel post-it nero attaccato al calendario venga strappato via in barba alle percentuali di sopravvivenza, per ritornare tra le braccia della rassicurante Ignoranza che permette di usare termini come futuroprogetti, mutuo ventennale, invecchiare o quando andrò in pensione io l’Inps non avrà più soldi.

È proprio così come me lo immagino?

La cosa incredibile è che alcune di queste persone sviluppano un coraggio e una fierezza spiazzanti con cui  accarezzano la vita in modo veramente profondo e genuino. 

È affascinante e sconcertante entrare nella dimensione complessa di queste persone e ammirare, dal mio punto di vista di illusa immortale, come il loro approccio alla quotidianità si faccia più raffinato, consapevole e attento a dilatare il momento presente rispetto a quello infinitamente più grezzo, maleducato e spesso privo di coscienza con cui siamo abituati, fin da piccoli, a misurare la vita. 

Ma la domanda è: quanto coraggio e quanto amore bisogna accumulare per parlare della propria data di scadenza a un compagno, a un padre e una madre, a un fratello o una sorella?

E soprattutto quanto per parlarne a un figlio?

Io non lo so, prova a dirmelo tu quanto.

Anzi no, va’, non dirmelo, non lo voglio sapere, tutto questo coraggio è troppo immenso per stare nella mia testa.

Noi immortali siamo piuttosto codardi. Noi, la data di scadenza, la concepiamo per scherzo, mica riferita al respiro. Quello è dato per scontato.

Ciò che vorrei confessarti adesso, Simo, è che ci sono momenti in cui penso, in preda a un raptus di sfrenato egoismo, che avrei preferito non averti mai conosciuta.

Mi sarei risparmiata questa fottuta paura della tua incredibile dimensione.

Ma è solo un attimo, poi passa, devo solo abituarmi alla vertigine che mi provoca affacciarmi da lì a fianco a te.

Per il resto del tempo, nello scorrere costante della mia vita ignara della sua scadenza, prego il tuo dio - sperando abbia ancora voglia di essere un po’ anche il mio - che ti restituisca presto la tua dose spettante di beata ignoranza a tempo indeterminato, perché a dirla tutta la meriti più tu di quanto me la stia meritando io.

Ah, la tua macchinetta del caffè credo sia da decalcificare.

giovedì 22 aprile 2021

L’assemblea dei condom-ini

No, brava gente che vive con me in questi poveri brutti parallelepipedi vagamente bauhaus e che ho il piacere di incontrare nelle assemblee dei gondoni, neanche stasera abbiamo vinto la medaglia d’oro alla comunità sana. Sapete parlare di democrazia solamente urlando, occultando maldestramente il vostro bullismo di merda, le vostre arringhe tendenziose, le inequivocabili mimiche facciali per svilire il voto diverso dal vostro. Abusate della forza di una maggioranza che non conosce il significato dell’interesse collettivo, del riconoscimento di un merito e dell’empatia, una maggioranza che pensa di esprimere  il senso civico e collaborativo solamente intimidendo e prendendo per il culo chi prende una posizione differente.

Io sono una perdente, lo so. La sarò sempre per voi. Le discussioni con voi e i registri arroganti e dileggianti mi sfiniscono, mi sfibrano. Ma alla fine mi congedo sempre sorridendo educatamente, perché in fondo sono anche un po’ agrimony: il dispiacere di questa esperienza di vicinato me lo tengo dentro.

Dopo 5 ore, quando rientro a casa, chiudere la porta e baciare mio figlio che alle 22 mi ha aspettato per la cena, mi dà conforto. Al telefono suo padre, un povero diavolo come me, che mi chiede come è andata.

E come vuoi che sia andata. Stasera ho qualche motivo in più per desiderare di vendere la mia amata casa, così estinguiamo il mutuo, estinguiamo il prestito, destiniamo un po’ di soldi al ragazzo per il suo futuro, tu ti indebiti nuovamente per un’altra casa con la tua futura nuova moglie e con la tua squadra di galline e io boh, si vedrà.

Metto su due bistecche, penso alle cose che ho detto bene, a quelle che avrei potuto dire meglio e a quelle che sarebbe stato meglio tacere. Penso ai miei probemi di soldi, a quelli di lavoro, a quelli che tengo a bada con 16 gocce al giorno di cocktail di Bach. Penso alle pratiche della separazione che mette fine legalmente a un legame che nel bene e nel male è durato 20 anni (gli ultimi cinque non li conto) e alle gomme della Smart da cambiare, perché pare che le mie gomme lisce non siano compatibili con la vita. Penso alla mia mamma che vorrebbe avermi a cena tutte le sere, penso a Mauro A. che oggi è morto d’infarto al porto di Voltri a 48 anni, penso a tutte le persone che hanno perso un figlio, a mio figlio grande che ha 'perso' il suo primo amore e al mio figliastro piccolo che non ha ancora perso nulla ma sta lottando per trovare se stesso. Penso a tutti noi, ma soprattutto alla generazione che abbiamo sfornato noi, che abbiamo perso il senso di libertà ma abbiamo le mani più pulite.

Penso ai giorni di dukan che sto facendo e alla mancanza di zuccheri che mi spappola il cervello e oggi mi ha fatta stare poco bene.

Penso che avrei voglia di drogarmi un po’ e che pure una scopata non farebbe male stasera, ma sono troppo stanca, quindi forse no, non scoperei.

Penso che non sono sola, perché c’è lui dall'altra parte della città che in questo momento sta tenendo a bada i suoi di pensieri, mentre guarda una serie col mio figliastro, cioè suo figlio, ma lo sento come se fosse di là, nel suo “ufficio” che gioca a homescapes attendendo l’arrivo del caffè.

Penso che venerdì lo vedrò e pensandolo sorrido.

Le bistecche sono pronte, altre proteine da assumere che magari mi faranno scendere di un altro chiletto nel giro vita e nella coscia, mioddio come sarei contenta di piacermi un po’ di più in questo periodo. Apparecchio in sala per me e Edo, l’episodio 5 stagione 3 di Better Call Saul sta per iniziare: il processo a Jimmy.

E mentre penso a tutto questo e impiatto le bistecche, protetta nel mio bel nido casalingo dentro ai parallelepipedi bruttarelli, le mie ansie e le mie preoccupazioni, le mie emozioni negative e i miei pesi di responsabilità si snodano e si ripongono temporaneamente e ordinatamente come lunghi capelli appena pettinati; mi pare quasi impossibile che stia provando qualcosa di simile alla felicità.

Fermo risolutamente il tempo per acchiappare questo attimo, fotografarlo, preservarlo, renderlo indelebile insieme a mille altri che ho messo nel mio album immaginario, io e tutto il resto siamo lì dentro, in quell’album, senza soluzione di continuità.

Allora mi riappacifico anche con l’assemblea dei gondoni, perché se ancora non ho capito il motivo per cui preferiamo essere così pessimi e brutti se riuniti in quella sala, almeno ho capito che nessuno fa eccezione, ho capito che in ognuno di noi sono custoditi momenti fermi e indelebili, ognuno dentro al suo cubo che compone l'enorme parallelepipedo come quella scena del film di Hitchcock, ognuno dentro al suo album di momenti catturati che ci rendono momentaneamente felici.

E momentaneamente brava gente.




mercoledì 7 aprile 2021

إلى القمر السعودي


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سلام عليك




giovedì 11 marzo 2021

Ransomware, just google it.

Entrano nel sistema informatico di una azienda, attaccano, iniettano, si ciucciano tutto quello che c’è da ciucciare, criptano, e come gli zingari cagano, mollando su tutti i desktop un txt di cordiale saluto con la richiesta di riscatto per riavere indietro anni di vita lavorativa.

Ma poi concludono il messaggio con una simpatica emoticon, questa : )


È successo stanotte nell’azienda dove lavoro, un’azienda attiva nel settore del turismo da 35 anni, che ha vissuto la guerra del golfo, due alluvioni, le torri gemelle, il crollo di un ponte e infine la pandemia.

Un’azienda che nonostante molte difficoltà era sana e dava da mangiare a un po’ di persone, ma che da marzo 2020 ha il fatturato fermo, 20 dipendenti in cassa integrazione, campa con due spiccioli di ristori e non sa manco se arriverà alla fine del 2021.

Ecco, da chissà quale continente, arrivano ‘sti genii dell’informatica - perché ci sanno fare eh? - con il loro criptino del cazzo, e chiedono alla banda di sfigati di turno, quelli che riescono a malapena a vendere due biglietti nazionali del treno alla settimana, un riscatto di 60 mila dollari in Bitcoin per riavere i dati che hanno rubato.

E se non paghi, oltre a non riaverli, la minaccia che qualche file finisca nel DARKWEB.

La vorrei proprio vedere quella foto dove io e il mio capo sturiamo il cesso dell’ufficio venduta nel mitico darkweb, sarebbe quasi una soddisfazione.

Toulì, il genio di questi luridi bitcoglioni figli di una grandissima trojan: fottere chi è già stato abbondantemente fottuto da un virus arrivato prima del loro.

Io non ho molto da dire.

Però così, con questo flebile bit di un cuore ormai rallentato, io vi auguro di morire in uno dei 10 modi peggiori possibili per morire e di finire nel girone infernale degli haker terroristi, dove i milioni di file che avete rubato si vestano di giga immensi e vi si inculino per l’eternità con le loro estensioni.


DO NOT KNOW HOW TO MORIRE MALE?

JUST GOOGLE IT : )

.




domenica 21 febbraio 2021

Il dilemma del Porco e della Spina

Una coppia di amici.

Non proprio gli amici intimi che si frequentano regolarmente e con cui si condivide la vita. Di quel tipo di amici non ne ho più da tempo. 

Ma intendo quelli che incontro ogni tanto, quelli di cui apprezzo il valore umano, quelli che, al netto dei loro evidenti difetti, classifico come “belle persone”, altruisti, sempre pronti a dare una mano, che si fanno voler bene e ai quali augurerei ogni bene.

Quelli che ognuno può incontrare casualmente sulla propria strada, e in effetti, ora che ci penso, è proprio in una stradina sulle alture della città che li frequento.

Loro sono in crisi da un po’ di tempo. Non voglio soffermarmi sulle motivazioni della crisi, qualcuna posso intuirla, ma ciò che intuisco è solo la punta di un iceberg che io non posso vedere, pertanto mi astengo dallo schieramento verso l’uno o l’altra. 


Lei era in casa al telefono con un’amica, tutti noi invece nella stradina a bere gli ultimi colpi di un liquore.

Lui, divertito e con gli occhi che brillavano di malizia come quelli di un adolescente che sta iniziando a scoprire un’emozione nuova, ci stava raccontando una cosa.

A un certo punto mi ha detto: lei ha 29 anni, io 56. Potrebbe essere mia figlia. Secondo te posso?

Secondo me.

Io ero gonfia come quasi tutti i venerdì sera, in testa avevo la riposta a tutto tondo, chiara e luminosa come il sole, ma in bocca avevo le biglie che mi impedivano di dar voce alla testa.



Vuoi sapere se secondo me puoi?

Innanzitutto, amico, ringrazia il cielo che ho le biglie in bocca che fanno da tappo all’analisi del tuo dilemma. 

Se devo dare una risposta dal punto di vista anagrafico sì, non c’è ombra di dubbio che potrebbe essere tua figlia, anzi, considerando che sua madre è del 1976 (chiamami pure Stasi), non ti dico che potresti essere suo nonno ma di sicuro potrebbe farti un certo effetto pensare che quando sua madre ha emesso il suo primo vagito, tu stavi iniziando a farti le prime seghe.

Di fatto, però, tua figlia non è. Di fatto, non ho mai considerato la differenza di età un vero problema.

E soprattutto, a 29 anni, è una donna fatta e finita, quindi il problema non sussiste minimamente e, secondo me sì, potresti.

Se poi proprio vogliamo buttarla sul piano “anatomico”, anche qualora di anni ne avesse 19 o giù di lì, quindi non fosse proprio quella che si definisce una donna sufficientemente maturata sotto molti punti di vista, nulla di fisiologico ti impedirebbe di schiacciartela. Quindi sì, anche in quel caso potresti.

Se vogliamo metterla sul piano morale, beh, visti i miei trascorsi e i miei passati dilemmi, credo di essere l’ultima persona che possa permettersi di dare un giudizio, il che ti libera ancora una volta dal rischio che il mio inutile parere si scontri con il tuo impulso inguinale.

Ma è proprio perché non ho il diritto di esprimermi sotto questo aspetto, che nasce la risposta vista da un piano non morale ma puramente soggettivo, conoscendo bene le dinamiche paracule che accompagnano certe esperienze. 

È proprio qui che nasce la mia difficoltà, caro amico.

Perché non puoi pretendere che io riesca a ridere con te serenamente e con leggerezza ascoltando i tuoi racconti mentre penso alla tua donna in casa che sta parlando con un’amica al telefono.

È proprio il modo con cui ce li stai mettendo orgogliosamente sul piatto, anzi sulla strada, a imbarazzarmi a dismisura, costringendomi ad una complicità silenziosa che non avrei mai voluto, o almeno non con questa modalità scanzonata e goliardica, al posto di una modalità più intima e consapevole dei danni emotivi e psicologici (per entrambi) che certe situazioni comportano, e che ben conosco.

È proprio il modo di raccontarlo ad essere più discutibile dell’ipotesi di te che ti chiavi la bella ventinovenne.

Ma c’è di più.

C’è questa cosa che scatta nella testa di chi sta per compiere quella scelta, per la prima o per l’ennesima volta poco importa, che permette di considerare tanto sbagliato il tradimento, quanto (e forse di più) è sbagliata e ingiusta la rabbia e la sofferenza della controparte, come se quella rabbia fosse la causa e il tradimento la conseguenza, e non il contrario.

Non fa una piega se ci pensi: il sacrosanto diritto alla fedeltà coincide con la violazione di un altrettanto sacrosanto diritto alla libertà individuale.

E talvolta il soggetto decide (per autodifesa, per legittimare l’atto, per cercare un consenso) di sporcare ulteriormente agli occhi degli altri la persona che sta ledendo quel diritto alla libertà e che costringe il soggetto a ledere il diritto alla fedeltà, e cosa fa? La fa passare per iena, per psicopatica, per bruttaecattiva, usando una comunicazione che influenza inevitabilmente il giudizio degli interlocutori.

Ohibò, è gelosa. È una cagacazzi. Non si leva mai dal culo. Quasi quasi se lo merita.

In quest’ottica le corna alla fine non sono nemmeno  il male peggiore.

Il male peggiore a cui è inevitabilmente condannato chi le subisce e chi le pianta, è l’annullamento totale della dignità dell’uno e dell’altra, una dignità sbranata reciprocamente senza pietà da entrambe le parti.

Il male peggiore è la mancanza di rispetto per la sofferenza profondissima di chi vive nel dubbio (se non proprio nella certezza), una sofferenza messa in piazza come uno sketch comico sui cliché delle donne (o degli uomini) che scassano i maroni.

Il male peggiore per il malcapitato è capire che non sta dando più nulla di buono, solo crisi isteriche, musi lunghi e frecciate crudeli e pungenti come le spine; è capire che ormai è e sarà sempre perdente di fronte a qualsiasi confronto, ma nessuno glielo lo svela chiaramente, men che meno chi ha affianco.

E il male peggiore, infine, è la sofferenza, anch’essa profondissima, di chi in fondo si sente di essere nient’altro che un porco, che non ha il coraggio (e sfido chiunque ad averlo) di riconoscere l’incredibile semplicità del problema e l’incredibile semplicità della soluzione.

Quel coraggio che gli permetterebbe di dire:

Hey, sai che c’è? C’è che ti voglio un bene della madonna, ma non ho più voglia di scopare con te.

C’è che puoi anche metterti fica e io posso pensare ‘uh che fica sei stasera’, e tu sorridi compiaciuta ma non sai che io, mentre te lo dico, non sto provando nulla che vada oltre l’apprezzamento puramente estetico.

C’è che per quanto ti impegni, non mi viene duro manco a morire se non penso di essere tra le gambe della vicina di sopra anziché le tue. E c’è che tu, intuendo questo, hai pure smesso di impegnarti perché ti sei psicologicamente privata di tutte le potenzialità che hai.

C’è che potrei apprezzare molto di più la persona che sei e che ho amato, se solo non fossi più costretto a dividere la mia vita con te e a renderti perennemente conto, ogni maledetto giorno, di quello che faccio, che sento e che desidero.

C’è che la tua presenza costante e lo spazio condiviso con te mi fanno soffocare e stare male.

C’è che finché continuerai a stare al mio fianco, io ti odierò sempre un po’ di più, anche se non lo meriti.

C’è che il mio odio arriverà a farti molto male e il tuo amore incattivito arriverà a fare molto male a me.

E c’è che se non ti dico tutte queste cose, calpesto anche io il tuo diritto di tornare fare un sorriso arrossendo e il tuo diritto di riceverlo.

Perché io non sono un porco, e tu non sei una spina.


Cosa c’è di così sbagliato nel pensare questo?

Cosa c’è di sbagliato nel dirlo?

Ma purtroppo no, non è possibile. Queste cose così semplici, così limpide e dignitose, così tanto crude e aspre, quanto meravigliosamente oneste e perfette, quasi fossero un ultimo gesto di amore e rispetto prima di chiudere la porta, noi donne e uomini medi non le sappiamo dire. 

Noi donne e uomini medi non le sappiamo neanche accettare. 

Bisogna nascondersi dietro a motivi che siano moralmente e socialmente più accettabili. Bisogna arrivare a sporcarsi e sporcare l’altro, ma sempre cercando di candeggiarsi prima che lo faccia l’altro, provocando più danni di quelli che si sarebbero provocati senza ridicole e inutili pantomime.

È proprio per difendere questo moralismo, se nel momento in cui si affacciano i primi segnali di una crisi, non abbiamo il coraggio di portarla alla luce, prima che sia troppo tardi. Ce ne stiamo lì, belli belli, nella nostra comfort-fucking zone, aspettando di essere asfaltati dagli eventi.

È per difendere questo moralismo che diventiamo l’espressione di queste derive di coppia, fatte di prigioni reciproche, di vigliaccheria, di porci con le spine piantate nel culo e di spine che vorrebbero essere sullo stelo di una rosa, fatte di negazionismo e menzogne, di indifferenza e ipocrisia; fatte di bullismo sessuale. Derive che nella migliore delle ipotesi portano a separazioni drammatiche pregne di odio e rancori e nella peggiore delle ipotesi non portano proprio a un cazzo e si continua a rimanere insieme.

È colpa di questo moralismo da quattro soldi, dietro le cui sbarre ci siamo rinchiusi chissà in quale momento della storia e abbracciando chissà quale filosofia, se siamo tutti così schifosamente e vergognosamente immorali, nel tentativo disperato di dimostrare che la promessa di amore eterno (e non intendo affatto quella religiosa) non siamo stati noi ad averla disattesa.

...


Ma le biglie in bocca avevano disintegrato tutto, mi era rimasto solo uno straccio di battuta amara di solidarietà nei confronti della ‘iena’. D’altronde non avrei nemmeno avuto il tempo di dire altro.

Stavo finendo il liquore quando lei è uscita di casa per fumarsi una siga con noi; è sceso per un attimo il silenzio, tutti con ‘sti mezzi sorrisini da imbecilli.

Aveva concluso la telefonata con l’amica che le aveva raccontato una brutta notizia di cronaca cittadina, guarda caso un curioso e drammatico episodio di delitto passionale.

Mentre usciva, prima di raccontare il fatto di cronaca, ha esordito con un quasi allegro “belin ragazzi che vita di merda”.

E io, a testa bassa, sono riuscita solo a dire “Sì, è proprio una vita dimmerda.”


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Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.

Arthur Schopenhauer, Il Dilemma del Porcospino