Una coppia di amici.
Non proprio gli amici intimi che si frequentano regolarmente e con cui si condivide la vita. Di quel tipo di amici non ne ho più da tempo.
Ma intendo quelli che incontro ogni tanto, quelli di cui apprezzo il valore umano, quelli che, al netto dei loro evidenti difetti, classifico come “belle persone”, altruisti, sempre pronti a dare una mano, che si fanno voler bene e ai quali augurerei ogni bene.
Quelli che ognuno può incontrare casualmente sulla propria strada, e in effetti, ora che ci penso, è proprio in una stradina sulle alture della città che li frequento.
Loro sono in crisi da un po’ di tempo. Non voglio soffermarmi sulle motivazioni della crisi, qualcuna posso intuirla, ma ciò che intuisco è solo la punta di un iceberg che io non posso vedere, pertanto mi astengo dallo schieramento verso l’uno o l’altra.
Lei era in casa al telefono con un’amica, tutti noi invece nella stradina a bere gli ultimi colpi di un liquore.
Lui, divertito e con gli occhi che brillavano di malizia come quelli di un adolescente che sta iniziando a scoprire un’emozione nuova, ci stava raccontando una cosa.
A un certo punto mi ha detto: lei ha 29 anni, io 56. Potrebbe essere mia figlia. Secondo te posso?
Secondo me.
Io ero gonfia come quasi tutti i venerdì sera, in testa avevo la riposta a tutto tondo, chiara e luminosa come il sole, ma in bocca avevo le biglie che mi impedivano di dar voce alla testa.
Vuoi sapere se secondo me puoi?
Innanzitutto, amico, ringrazia il cielo che ho le biglie in bocca che fanno da tappo all’analisi del tuo dilemma.
Se devo dare una risposta dal punto di vista anagrafico sì, non c’è ombra di dubbio che potrebbe essere tua figlia, anzi, considerando che sua madre è del 1976 (chiamami pure Stasi), non ti dico che potresti essere suo nonno ma di sicuro potrebbe farti un certo effetto pensare che quando sua madre ha emesso il suo primo vagito, tu stavi iniziando a farti le prime seghe.
Di fatto, però, tua figlia non è. Di fatto, non ho mai considerato la differenza di età un vero problema.
E soprattutto, a 29 anni, è una donna fatta e finita, quindi il problema non sussiste minimamente e, secondo me sì, potresti.
Se poi proprio vogliamo buttarla sul piano “anatomico”, anche qualora di anni ne avesse 19 o giù di lì, quindi non fosse proprio quella che si definisce una donna sufficientemente maturata sotto molti punti di vista, nulla di fisiologico ti impedirebbe di schiacciartela. Quindi sì, anche in quel caso potresti.
Se vogliamo metterla sul piano morale, beh, visti i miei trascorsi e i miei passati dilemmi, credo di essere l’ultima persona che possa permettersi di dare un giudizio, il che ti libera ancora una volta dal rischio che il mio inutile parere si scontri con il tuo impulso inguinale.
Ma è proprio perché non ho il diritto di esprimermi sotto questo aspetto, che nasce la risposta vista da un piano non morale ma puramente soggettivo, conoscendo bene le dinamiche paracule che accompagnano certe esperienze.
È proprio qui che nasce la mia difficoltà, caro amico.
Perché non puoi pretendere che io riesca a ridere con te serenamente e con leggerezza ascoltando i tuoi racconti mentre penso alla tua donna in casa che sta parlando con un’amica al telefono.
È proprio il modo con cui ce li stai mettendo orgogliosamente sul piatto, anzi sulla strada, a imbarazzarmi a dismisura, costringendomi ad una complicità silenziosa che non avrei mai voluto, o almeno non con questa modalità scanzonata e goliardica, al posto di una modalità più intima e consapevole dei danni emotivi e psicologici (per entrambi) che certe situazioni comportano, e che ben conosco.
È proprio il modo di raccontarlo ad essere più discutibile dell’ipotesi di te che ti chiavi la bella ventinovenne.
Ma c’è di più.
C’è questa cosa che scatta nella testa di chi sta per compiere quella scelta, per la prima o per l’ennesima volta poco importa, che permette di considerare tanto sbagliato il tradimento, quanto (e forse di più) è sbagliata e ingiusta la rabbia e la sofferenza della controparte, come se quella rabbia fosse la causa e il tradimento la conseguenza, e non il contrario.
Non fa una piega se ci pensi: il sacrosanto diritto alla fedeltà coincide con la violazione di un altrettanto sacrosanto diritto alla libertà individuale.
E talvolta il soggetto decide (per autodifesa, per legittimare l’atto, per cercare un consenso) di sporcare ulteriormente agli occhi degli altri la persona che sta ledendo quel diritto alla libertà e che costringe il soggetto a ledere il diritto alla fedeltà, e cosa fa? La fa passare per iena, per psicopatica, per bruttaecattiva, usando una comunicazione che influenza inevitabilmente il giudizio degli interlocutori.
Ohibò, è gelosa. È una cagacazzi. Non si leva mai dal culo. Quasi quasi se lo merita.
In quest’ottica le corna alla fine non sono nemmeno il male peggiore.
Il male peggiore a cui è inevitabilmente condannato chi le subisce e chi le pianta, è l’annullamento totale della dignità dell’uno e dell’altra, una dignità sbranata reciprocamente senza pietà da entrambe le parti.
Il male peggiore è la mancanza di rispetto per la sofferenza profondissima di chi vive nel dubbio (se non proprio nella certezza), una sofferenza messa in piazza come uno sketch comico sui cliché delle donne (o degli uomini) che scassano i maroni.
Il male peggiore per il malcapitato è capire che non sta dando più nulla di buono, solo crisi isteriche, musi lunghi e frecciate crudeli e pungenti come le spine; è capire che ormai è e sarà sempre perdente di fronte a qualsiasi confronto, ma nessuno glielo lo svela chiaramente, men che meno chi ha affianco.
E il male peggiore, infine, è la sofferenza, anch’essa profondissima, di chi in fondo si sente di essere nient’altro che un porco, che non ha il coraggio (e sfido chiunque ad averlo) di riconoscere l’incredibile semplicità del problema e l’incredibile semplicità della soluzione.
Quel coraggio che gli permetterebbe di dire:
Hey, sai che c’è? C’è che ti voglio un bene della madonna, ma non ho più voglia di scopare con te.
C’è che puoi anche metterti fica e io posso pensare ‘uh che fica sei stasera’, e tu sorridi compiaciuta ma non sai che io, mentre te lo dico, non sto provando nulla che vada oltre l’apprezzamento puramente estetico.
C’è che per quanto ti impegni, non mi viene duro manco a morire se non penso di essere tra le gambe della vicina di sopra anziché le tue. E c’è che tu, intuendo questo, hai pure smesso di impegnarti perché ti sei psicologicamente privata di tutte le potenzialità che hai.
C’è che potrei apprezzare molto di più la persona che sei e che ho amato, se solo non fossi più costretto a dividere la mia vita con te e a renderti perennemente conto, ogni maledetto giorno, di quello che faccio, che sento e che desidero.
C’è che la tua presenza costante e lo spazio condiviso con te mi fanno soffocare e stare male.
C’è che finché continuerai a stare al mio fianco, io ti odierò sempre un po’ di più, anche se non lo meriti.
C’è che il mio odio arriverà a farti molto male e il tuo amore incattivito arriverà a fare molto male a me.
E c’è che se non ti dico tutte queste cose, calpesto anche io il tuo diritto di tornare fare un sorriso arrossendo e il tuo diritto di riceverlo.
Perché io non sono un porco, e tu non sei una spina.
Cosa c’è di così sbagliato nel pensare questo?
Cosa c’è di sbagliato nel dirlo?
Ma purtroppo no, non è possibile. Queste cose così semplici, così limpide e dignitose, così tanto crude e aspre, quanto meravigliosamente oneste e perfette, quasi fossero un ultimo gesto di amore e rispetto prima di chiudere la porta, noi donne e uomini medi non le sappiamo dire.
Noi donne e uomini medi non le sappiamo neanche accettare.
Bisogna nascondersi dietro a motivi che siano moralmente e socialmente più accettabili. Bisogna arrivare a sporcarsi e sporcare l’altro, ma sempre cercando di candeggiarsi prima che lo faccia l’altro, provocando più danni di quelli che si sarebbero provocati senza ridicole e inutili pantomime.
È proprio per difendere questo moralismo, se nel momento in cui si affacciano i primi segnali di una crisi, non abbiamo il coraggio di portarla alla luce, prima che sia troppo tardi. Ce ne stiamo lì, belli belli, nella nostra comfort-fucking zone, aspettando di essere asfaltati dagli eventi.
È per difendere questo moralismo che diventiamo l’espressione di queste derive di coppia, fatte di prigioni reciproche, di vigliaccheria, di porci con le spine piantate nel culo e di spine che vorrebbero essere sullo stelo di una rosa, fatte di negazionismo e menzogne, di indifferenza e ipocrisia; fatte di bullismo sessuale. Derive che nella migliore delle ipotesi portano a separazioni drammatiche pregne di odio e rancori e nella peggiore delle ipotesi non portano proprio a un cazzo e si continua a rimanere insieme.
È colpa di questo moralismo da quattro soldi, dietro le cui sbarre ci siamo rinchiusi chissà in quale momento della storia e abbracciando chissà quale filosofia, se siamo tutti così schifosamente e vergognosamente immorali, nel tentativo disperato di dimostrare che la promessa di amore eterno (e non intendo affatto quella religiosa) non siamo stati noi ad averla disattesa.
...
Ma le biglie in bocca avevano disintegrato tutto, mi era rimasto solo uno straccio di battuta amara di solidarietà nei confronti della ‘iena’. D’altronde non avrei nemmeno avuto il tempo di dire altro.
Stavo finendo il liquore quando lei è uscita di casa per fumarsi una siga con noi; è sceso per un attimo il silenzio, tutti con ‘sti mezzi sorrisini da imbecilli.
Aveva concluso la telefonata con l’amica che le aveva raccontato una brutta notizia di cronaca cittadina, guarda caso un curioso e drammatico episodio di delitto passionale.
Mentre usciva, prima di raccontare il fatto di cronaca, ha esordito con un quasi allegro “belin ragazzi che vita di merda”.
E io, a testa bassa, sono riuscita solo a dire “Sì, è proprio una vita dimmerda.”
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Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.
Arthur Schopenhauer, Il Dilemma del Porcospino
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