Avevo voglia di dire qualcosa, tipo che il mondo come sta diventando inizia a farmi veramente tanto schifo.
Solo che mentre iniziavo a scrivere stavo seduta su una panchina di fronte al solito mostro: il 189 che mi deve riportare a casa dopo circa 12 ore di sorrisi d’ordinanza e gentilezza forzata.
Ma lui, il 189, non parte mai.
La mattina nasco già stanca e dolorante qua e là, ma forse il vero problema non è la stanchezza o il dolore: è la tachicardia mentale.
Quella che si vede benissimo, incisa in una ruga verticale ormai permanente subito sopra il naso, che mi sfigura anche quando sorrido. E poi, sopra quella ruga, si appoggiano occhiali appannati, pieni di graffi e delle mie impronte digitali, che non mi fanno vedere bene quello che scrivo.
Ho pensieri che entrano chiassosi come bambini capricciosi, rubando prepotentemente la mia attenzione, tutti con la loro urgenza, tutti con la pretesa di essere considerati il pensiero più importante, e poi se ne vanno senza ripulire quel cesso della mia testa spettinata su cui hanno piantato le loro scorie.
E io resto lì, più vuota, più sporca, più accecata e più spettinata che mai, con un filo di trucco sbiadito e il rossetto mezzo scancellato, che rende ancora più indecorosa la mia inquietudine.
Avevo voglia di dire qualcosa di decente.
O quantomeno di abbastanza disturbante da sembrare interessante.
Non ste robe che suonano come un rospo tossito dal clochard incazzato di Principe.
Poi è passata anche quella voglia, come tutto il resto.
Ed è rimasto solo quel rospo - che oltretutto mi somiglia tantissimo con quella faccia da ‘andatevene affanculo tutti quanti’.

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