domenica 2 novembre 2025

L’alchimista del cesso

 Fase 1 – La pozione (pre-shampoo)

Obiettivo: risvegliare i ricci, nutrirli e ammorbidirli.

Ingredienti a disposizione nel mobile del bagno:

- 2 cucchiai di Garnier Fructis Hair Food Burro di Cacao rigenera ricci;

- 1 cucchiaio di Schwarzkopf Gliss Ultra Repair Bond Building Mask, riparatore strutturale, che mi tappa le crepe del capello incazzato;

- 10 gocce di Vitalcare Imperial Argan Oil che sigilla, idrata e dà quella lucentezza finale da ho dormito otto ore e bevuto due litri d’acqua, anche se non è vero.

- dalla cucina: 1 cucchiaio di miele che lucida e mi addolcisce un po’ anche l’autostima.


Rituale

In una ciotola, mescolo tutto con un cucchiaio (di legno, perche voglio sentirmi una strega medievale autentica).

Applico su capelli asciutti ciocca per ciocca.

Pettino dolorosamente con pettine a denti larghi e con l’autorevolezza di un domatore di leoni.

Devono essere “imburrati” anche se alla fine sembrano più “impanati” e pronti per essere fritti.

Copro con la cuffia della nonna anche se non ho mai avuto una nonna e quindi nemmeno una cuffia. Copro con la pellicola da cucina.

Lascio agire 60 minuti, più o meno il tempo in cui scrivo, correggo e pubblico ‘sto post e mi fumo una sigaretta.


Fase 2 – La purificazione (shampoo)

Obiettivo: lavare i capelli.


Ingredienti a disposizione nel mobile del bagno:

Uno Shampo, che è sempre diverso ogni mese perché mi piace sperimentare. 

Attualmente ho Organic Innovation - Ricci, con olio di cocco e olio di bambù.


Rituale

Sciacquo via l’impanatura, massaggio lo shampoo dolcemente, concentrandomi sul cuoio capelluto, non sulle lunghezze.

Sciacquo bene, liberandomi anche dal malumore accumulato in settimana.

Ripeto l’operazione anche sulle lunghezze e risciacquo.


Fase 3 – L’illuminazione (post-shampoo)

Obiettivo: Chiudere la cuticola per far brillare la chioma come un led.


Ingrediente a disposizione nel mobile del bagno:

Balea Glow&Shine Laminier Kur (DM, che non si capisce mai un cazzo di cosa c’è scritto nell’etichetta in tedesco ma costa poco).


Rituale

Tampono i capelli (devono essere umidi, non fradici).

Applico una noce di prodotto su lunghezze e punte.

La noce non basta, quindi diventa una mela.

Lascio agire 5–10 minuti, il tempo di riflettere sul senso della mia vita e concludere che ci penserò un altro giorno.

Sciacquo con acqua tiepida e, per sigillare il tutto, finisco con un getto di acqua fredda per chiudere le cuticole e sperare di dire addio al crespo.


Fase 4 – L’ascensione (asciugatura)

Applico sulle lunghezze la crema ricci, l’unica per me veramente valida: Adornricci senza capricci.

Eseguo ciocca per ciocca un accurato scrunch, mentre penso che la dignità dovrebbe almeno impedirci di usare questi termini del cazzo al posto di “mi strizzo i ricci con le dita”.

Se possibile, lascio asciugare al naturale, con buona pace della mia cervicale; in alternativa diffusore tiepido.

Quando sono quasi asciutti, aggiungo una goccia di olio di Argan solo sulle punte, così, come benedizione finale, o un’estrema unzione.


Fase 5 - La rivelazione (risultato sperato)

Morbidezza, lucentezza, docilità, con quella chioma a specchio che riflette la luce da pubblicità anni ’90, ma con l’anima decadente che mi piace tanto.


Fase 5 bis - La rassegnazione (risultato effettivo)

Il solito: tipo paglia del presepe.

Ma tant’è, sono un’alchimista del cesso, e non posso sottrarmi a questo destino.


È giunta l’ora della Fase 2.

Ciao.




PS: mi sembra piuttosto superfluo specificare che non ho preso sacchi dai sopracitati brand per questo post, data l’assenza di un pubblico.

Ma a scanso di equivoci, avviso l’Agenzia delle Entrate che se gli stessi me ne avessero dati, sarei stata ben lieta di pagarci le tasse.


venerdì 3 ottobre 2025

Ah, no

 Oggi 3 ottobre ho portato l’iPhone in riparazione perché si è rotto l’altoparlante, credo.

Come mai? mi chiedono.

Ma boh, che cazzo ne so, scusate.

Se quel telefono non è in mano mia, è per terra perché mi cade sempre dalle mani. 

Difficilmente è in qualche altro posto.

È stato anche dentro un water di un 5 stelle lusso ad Artimino mentre facevo un sopralluogo. Non certo perché fossi lì in vacanza, ci mancherebbe.

Però la tipa dell’hotel mi aveva simpaticamente garantito che non sarebbe successo nulla: meglio in un water di un 5 stelle lusso che in quello di un autogrill. Almeno lì ci cagano e ci pisciano i ricchi.

Ci ho pisciato anch’io che sono una povera morta di fame comunista.

E forse è per quello che il mio iPhone ha perso la voce.

Comunista con l’iPhone perche il Rolex non me lo potrò mai permettere.

Comunque, oggi l’ho portato in riparazione e in quell’ora cosa faccio senza telefono?

Niente.

Mi godo un’ora di vita da sveglia senza telefono. Figata. 

Vado al bar e prendo un caffè e un pasticcino con la crema pasticcera e due lamponi.

Vado a pagare con il contactless, ah no, non ho il telefono.

Vabbè. Mi metto sulla panchina e mi faccio una partita a homescapes, ah no.

Vabbè, chiamo Benny, l’ex capo che abita da quelle parti, così ci facciamo un saluto, ah no.

Vabbè, mando un paio di mail di lavoro così mi porto avanti, ah no.

Vabbè, vado su fb a vedere le stronzate che scrive la gente, ah no.

Vabbè, mi guardo una puntata di Dexter, ah no.

Vabbè, vediamo come si veste oggi quella influencer su ig che tutti i giorni ci dice come cazzo si veste, ah no.

Vabbè, mando un vocale a Germa per dirgli che me lo meno e che mi fa male il piede con la gotta, ah no.

Vabbè, vediamo se sul gruppo famiglia la mamma ha scritto che ha finito il Tavor, ah no.

Vabbè, vediamo se l’amministratore ha convocato l’assemblea straordinaria di condominio, ah no.

Vabbè, vediamo che ore sono, ah no.

Manco so che ore sono, se non ho il telefono.

Un’ora senza telefono e la mia vita si è fermata. Stop.


Intanto la gente muore a Gaza e dei volontari che cercano di portare aiuti umanitari sono finiti in un carcere israeliano. 

Ma io non so come passare un’ora del mio merdoso tempo senza il cazzo di iPhone.

Vuoto cosmico, in una splendida giornata di sole autunnale.


Ah no. In quest’ora senza vita ho saputo fare ì conti:

€ 104,50

• 100 di riparazione telefono

• 2 di caffè e pasticcino coi lamponi 

• 2,50 di Secolo XIX e TV Sorrisi e Canzoni (diomio così anni 80!) che non avrei mai comprato se non fossi stata senza telefono per un’ora.

Totale dell’operazione: un telefono resuscitato e la consapevolezza di una coscienza in stato comatoso.


E quella mica si ripara con 100 sacchi.


giovedì 14 agosto 2025

Ad agosto fa caldo

Agosto. Torrido come tutti gli agosti che ricordo, e pure quelli che non ricordo ma so che c’erano.

Hai voglia a dire “eh ma quando eravamo ragazzi non faceva così caldo”.

Certo, forse le stagioni erano più stagioni, forse il termometro saliva meno, forse si poteva prendere il sole con la Lancaster e lo specchio senza finire al centro ustioni e sì, sicuramente ora sto seduta su un divano piazzato dove una volta era tutta fresca campagna.

Non nego niente.

Ma il caldo porco me lo ricordo lo stesso. Da sempre.

Mi ricordo la mamma che mi faceva prendere tre autobus per andare al mare da Via Imperiale 39 a Sturla, e io lì a sciogliermi in slow motion.

Mi ricordo la Ludo e i baracconi della Foce, e poi noi due, sudate e puzzolenti marce, a boccheggiare in Corso Torino come Saul Goodman e Mike Ermantraut nel deserto del New Mexico.

Mi ricordo lo zaino da venti chili su un corpo che ne pesava trenta durante il “buon cammino” dei lupetti, e quella cazzo di sete che mi faceva desiderare l’estinzione.

Mi ricordo l’agosto in cui sono diventata zia o quello in cui mi hanno detto che la sarei diventata ancora.

L’agosto in cui ho indossato un vestito da sposa.

E mi ricordo l’agosto caldo e faticoso in cui fiera come un Dio ho portato addosso una pancia di 20 chili e poi ho scaricato l’individuo urlante che l’altro ieri ha fatto 24 anni.

E quell’agosto di Noi, l’agosto Cazzoneso, bollente come non mai.

E ancora l’agosto in cui la Simo se ne è andata via e io che sudavo e piangevo e volevo telefonarle mentre stavo seduta davanti alla sua bara aperta nel suo soggiorno.

Il clima è cambiato, sì.

Ma non è cambiata la percezione di tutti i miei agosti, quella sensazione di bollire nella stessa minestra: caldo, nausea, turbamenti, vita, morte, ansie, cicale, voglia di vedere cosa c’è dietro l’angolo e attesa sospesa dell’avvenire — anche se fosse la morte, tanto per variare.

Sempre la stessa trepidazione, la stessa speranza di un colpo di scena.

Ah, l’adolescenza… quella dopo i 50.

L’età in cui non ti esplodono più i brufoli in faccia, ma ti esplode la pazienza.

Che periodo di merda meravigliosa, questa adolescenza.

E che mese spettacolare, l’Agosto.



Chitarre liquide, un tempo sospeso, l’aria di un sogno che scivola. Agosto.


domenica 13 luglio 2025

Il cerchio

 Non so se sono gli altri che mi stanno intossicando o se sono io che sto intossicando loro. 

Se hai problemi con tutti, e fattele due domande.

Insopportabile ‘sta frase, che potrebbe essere l’unica risposta che mi merito e mi ripeto da sola come un mantra di merda. 

È quel genere di frase sbrigativa che arriva addosso come una martellata vuota se usata per liquidare un’anima in tempesta.

Mi fa sentire di una taglia emotiva che non va più bene a nessuno e diventa difficile “indossarmi”.

Che poi, il problema forse non è nemmeno la taglia, ma il fatto che la gente oggi non ha più voglia di indossare nessuno.

E comunque quali cazzo di domande dovrei farmi?

Se  sono gli altri che mi stanno intossicando o se sono io che sto intossicando loro?

Perché sono vere entrambe le cose.

È vero che gli altri mi avvelenano perché è vero che sono io che avveleno gli altri.

La verità è un cerchio.

E’ un loop circolare che si autoalimenta.

Una spirale chiusa dove la causa e l’effetto si inseguono e s’inculano a vicenda, fino a perdere il punto di origine. Perché in un cerchio questo punto non è mai esistito.

Il cerchio non ha un inizio né una fine, non ha un punto in cui si spezza e cambia improvvisamente direzione.

Io me ne faccio eccome di domande, in continuazione, me ne faccio fin troppe.

Che poi sono sicura che sono le stesse che si fanno tutti, solo che non tutti sono coscienti di porsele.

Domande che racchiudono sensi di colpa, dualismi, lotte interne tra la certezza di essere i giustissimi e gli onniscientissimi e il fastidioso costante dubbio di essere tutti così vergognosamente sbagliati e ignoranti. 

Domande che non dovrebbero assolverci e non dovrebbero nemmeno accusare.

È qui che si genera il loop e quindi il ritorno costante delle stesse dinamiche interiori, delle corse nel cerchio, delle dosi di veleno che ci scambiamo reciprocamente e della stessa fottutissima domanda, sono gli altri o sono io

Come se la propria salvezza dipendesse solo dall’aver individuato il colpevole.

Siamo tutti.

A volte avrei solo bisogno di uscire dalla verità del cerchio e potermi stravaccare sul divano dell’anima di qualcuno senza dover giustificare ogni respiro e ogni battito di cuore che non va a tempo con la musica degli altri.

Ma magari quel qualcuno in quel momento è nel suo cerchio che corre e si invexenda come un disperato e nella sua anima non ha manco una sedia scomoda da offrirmi.

O magari si aspetta che possa essere io ad offrigli quel divano e io, correndo, gli rispondo ‘fuori dai coglioni, non vedi che c’ho da fare?’

Mi vien da ridere.

E mi viene anche voglia di bestemmiare.

Povero dio, sempre in mezzo.

In fondo è un povero diavolo pure lui, che non è riuscito a fare di meglio.



Gone, The Kruder&Dorfmeister

sabato 14 giugno 2025

Dissezione anatomica di un pensiero

 ⚠️ Attenzione: questo post contiene immagini che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni utenti, ma per fortuna gli utenti (sensibili e non) che cagano questo blog si sono defilati da tempo, pertanto le presunte sensibilità possono stare serene. 

Sono appena rientrata da Napoli dove ho fatto un cadaver lab per 28 ortopedici su quelli che in gergo si chiamano “specimen” o “preparati anatomici” (o nel nostro slang “i ragazzi”), che altro non sono che pezzi di corpo umano su cui degli individui chiamati “i discenti” si esercitano in tecniche chirurgiche o infiltrative o radiodiagnostiche, dissezionano, tagliano, cuciono, insomma: simulano e giocano.

Nello specifico ⚠️ l’immagine che urta la sensibilità è un Arm-Shoulder.


Il motivo per cui pubblico la foto non è per il gusto dell’orrido o per fare macabro sensazionalismo. O almeno, non in questo caso.

La pubblico con il cuore gonfio di uno strano mix di consapevolezza, senso nostalgico e gratitudine per ciò che siamo oggi e che un giorno non saremo più.

La pubblico in onore di ciò che siamo capaci di dare ma anche con la vergogna per ciò che siamo capaci di togliere.

Questo braccio arrivato congelato insieme ad altri “ragazzi” dagli Stati Uniti fino a Napoli per essere posizionato su un tavolo operatorio in modo così naturale, come se appartenesse ancora ad un corpo addormentato sul suo letto, sta per prestarsi alla scienza ortopedica.

Guardandolo non è certo facile immaginare che fino a pochissimo tempo fa ha accarezzato, ha salutato, ha abbracciato, ha tirato dei pattoni e ha mandato affanculo della gente.

Un tempo ha mandato messaggi, ha fatto sesso, ha cullato un bambino, ha indossato un anello o un bracciale, ha portato cibo alla bocca, ha brindato, ha pulito il culo e ha scritto cose.

Chi lo guarda inorridisce, dice bèhh che schifo, sente il suo odore ed emette il suono gutturale del conato di vomito. Qualcun altro scatta la foto che poi viene uazzappata a qualche conoscente per farsi bello con orrido divertimento (ammetto di averlo fatto in occasione di diversi cadlab, compreso questo).

Poi, dopo averlo guardato, schifato fotografato e uazzappato, come se niente fosse riprende a pensare ai cazzi della sua vita, al centro dell’attenzione solo di sé stesso e ignorando il fatto di non essere il centro del mondo di qualcun altro, perché anche quell’altro ha al centro del mondo, giustappunto, sé stesso.

Durante questo cadaver lab, non ho partecipato alla dissezione del braccio. Ma ho preso coscienza di una cosa importante che ritengo ugualmente Scienza.

Ho imparato che tutti noi siamo l’intero libro della nostra vita e al tempo stesso un semplice capitolo, più o meno lungo, della vita degli altri.

Ho pensato molto a come mi sono comportata in questi giorni, a cosa ho provato, a certe stonature che facevo finta di non sentire ma che percepivo così forti da spingermi a trovare una scusa qualunque per far detonare lo strano disagio che mi possedeva.

Ho quindi dissezionato strato per strato tutta la materia emotiva che si è liberata.

Il pensiero si è poi soffermato sull’immagine di quella elegante lacrima che ho visto scendere lentamente nel perfetto centro di una guancia e ho immaginato che fosse causata dalla stessa identica afflizione mista ad un filo di rabbia che stavo provando io: c’è qualcosa che non va nei nostri reciproci capitoli. Ed è stata quella lacrima così perfetta e unica a scatenare le mie che non scendono mai al centro ma si spantegano disordinatamente sui due lati del viso.

Ho infine capito che all’origine di tutto sto malessere interiore c’era il rifiuto di accettare che i capitoli bisogna saperli chiudere quando finiscono di raccontare una storia, quando certe connessioni così speciali e forti non riesci più a ricollegarle come un tempo. Perché il tempo, le esperienze e gli eventi cambiano le persone, ci cambiano tutti, in continuazione.

Ci impongono diverse priorità, ci evolvono su certi aspetti, ci fanno regredire su altri, ci illuminano verso nuovi punti di vista, e ne mettono in ombra altri, ci avvicinano a cose e ci allontanano da altre.

E non è una cosa brutta.

È una cosa semplicemente naturale, fisiologica.

Devi accettare che il tuo libro continui, perché è la tua vita, ma con nuovi capitoli che a loro volta, un giorno, lasceranno il posto ad altri.

Nello stesso tempo devi accettare di diventare il capitoletto chiuso di un libro che non è il tuo. 

Senza rancore, senza l’accanimento  di tenerli entrambi aperti, perché al momento (magari non definitivamente) non hanno più nulla a che fare con i libri su cui sono stati scritti.

Siamo tutti, da sempre, dei capitoli che hanno raccontato tante cose nei libri degli altri e che ad un certo punto devono essere messi a giacere in quella posizione lì, così naturale e abbandonata.

Proprio come questo braccio al servizio della scienza, e quando lo guardiamo in tutta la sua scioccante crudezza e drammaticità, non dovrebbe ⚠️ urtare le nostre ipocrite sensibilità di merda ma, al contrario, dovrebbe evocare cosa ha rappresentato quando era un tutt’uno con il resto del corpo e controllato da un cervello.

Che magari è stato pure più brillante e sensibile del nostro.